INTRODUZIONE CUCINA VENETA
La cucina veneta nasce in un tempo remoto quando pesca, caccia e orticoltura si univano offrendo prodotti e ingredienti unici alla cucina veneziana. Tutta la gastronomia veneta è dominata da quattro elementi: polenta, riso, fagioli e baccalà.
E' proprio da questi 4 punti fondamentali che si sviluppano poi una serie di ricette uniche e originali poiché nate dalla fusione tra storia-tradizione e passato.
Uno degli elementi che caratterizzano la gastronomia veneta è appunto il riso che ha determinato la creazione di circa quaranta piatti diversi. I più famosi sono "risi e bisi" e "risi e figadini".
Il riso, arrivò nel Veneto dal mondo arabo in seguito ai commerci veneziani con l'Oriente.Dalla prima metà del 1500 venne coltivato nelle vaste pianure di Roverchiara e Palù nel veronese, dove ancora oggi si produce una interessante varietà di riso vialone nano tutelata dal marchio DOP.
I motivi che fanno del vialone nano veronese un riso speciale sono: il terreno alcalino, le acque di risorgive, che provengono dal sottosuolo da rocce calcaree, il fatto che le colture avvengono in avvicendamento e la pratica riduce al minimo ogni tipo di intervento dell'uomo, dall'utilizzo di sostanze chimiche in difesa delle piantagioni a quello di concimazioni altrettanto chimiche.
Caratteristica della cucina tipica veneta è la varietà dei suoi piatti e la diversa provenienza degli ingredienti. Niente di più naturale per una regione che da cinque secoli ha mantenuto scambi commerciali dal nord dell'Europa all'Estremo Oriente.
Anche le spezie rivestono un ruolo importante nella cucina veneta;mentre nel resto dell'Europa le spezie furono spesso utilizzate per conservare i cibi più che per modificarne il sapore, la cucina veneziana accolse alcuni principi alimentari levantini facendoli propri e creando pietanze nuove.
CUCINA VENETA
L'alimentazione veneta è dominata da quattro elementi: polenta, riso, fagioli e baccalà. Su questi cardini si sviluppa un ventaglio di sapori che trova le sue scelte nella produzione agricola e zootecnica regionale e nelle trasformazioni dei prodotti. Ma conoscendo la storia di questa terra non meraviglia che i quattro pilastri siano tutti d'importazione. La farina di mais è arrivata nel '500, imposta dalla Serenissima nella pur generale diffidenza dei coltivatori verso ogni cosa nuova (si pensi che i lombardi si convinsero a coltivare il mais solo dopo la peste manzoniana del 1630 e la conseguente carestia), i fagioli sono contemporanei al granturco, il riso, arrivato dal mondo arabo in seguito ai commerci veneziani con l'Oriente, dalla prima metà del 1500 venne coltivato nelle vaste pianure di Roverchiara e Palù nel veronese, dove ancora oggi si produce una interessante varietà di riso vialone nano tutelata dal marchio DOP. Le sue colture sono alimentate da acqua di risorgiva e la zona tipica di produzione, tutta attorno al comune di Isola della Scala, comprende anche i territori di una ventina di altri comuni. I motivi che fanno del vialone nano veronese un riso speciale sono, secondo gli esperti, il terreno alcalino, le acque di risorgive, che provengono dal sottosuolo da rocce calcaree, il fatto che le colture avvengono in avvicendamento e la pratica riduce al minimo ogni tipo di intervento dell'uomo, dall'utilizzo di sostanze chimiche in difesa delle piantagioni a quello di concimazioni altrettanto chimiche. La qualità di questo riso ha determinato la creazione di circa quaranta piatti diversi a base di riso. I più famosi sono "risi e bisi" e "risi e figadini". Non sono piatti asciutti ma minestre dense, la prima tipicamente primaverile con l'impiego di pisellini freschi, la seconda con i fegatini di pollo. Moltissimi sono i risotti: con il pesce, con i "rovinassi" (resti del pollo dopo la separazione dei petti e delle cosce), con i fagioli di Lamon, con i "bruscandoli", con le lumache. Molto curioso è "risi in cavroman", piatto levantino nel quale il riso è cotto in un intingolo di carne di castrato insaporito con cannella e garofano.
E infine il baccalà (che è poi lo stoccafisso) che è addirittura successivo ed è sceso dai mari del Nord. Attorno a questa base troviamo un ricco assortimento di prodotti che l'abilità dell'uomo ha messo a disposizione delle massaie e dei cuochi: molti salumi e prosciutti, dalla soppressa ai sanguinacci; ancor più numerosi e importanti i formaggi, il latteria, il monte veronese, il montasio e altri più rari o singolari, e i prodotti dell'orto, primo fra tutti il radicchio nelle sue varietà che viene utilizzato per vari piatti fra cui ricordiamo il famoso risotto al radicchio trevigiano e il radicchio in forno.
Largamente superata dalla polenta, la pasta ha trovato in Veneto una sola espressione tipicamente locale nei bigoli, che sono un rustico e ruvido esempio di grossi spaghetti ottenuti con molta fatica al torchio girato a mano. È ancora così che vengono fatti in alcune famiglie delle campagne; il compito spetta agli uomini perché ci vuole molta forza. Oggi tanti laboratori artigianali li producono quotidianamente a macchina. I bigoli si trovano anche in confezione industriale, secchi, ma la tradizione li vuole freschi, appena passati dalla trafila di bronzo del torchio.
I trascorsi dorati di Venezia e la potenza della Repubblica sono raccontati in cucina e nelle produzioni alimentari dal ricco impiego di spezie. Se si va a guardare nelle ricette tipiche delle sette province della regione, pur legate ciascuna ai prodotti del territorio, si nota la presenza non solo del pepe ma della cannella, dei chiodi di garofano, dell'uvetta di Corinto e altro. Grandi trasportatori di spezie, i veneziani le hanno non solo commerciate ma anche adottate nella loro cucina e in parte diffuse in tutta la regione.
Caratteristica della cucina propriamente veneziana è la varietà dei suoi piatti e la diversa provenienza degli ingredienti. Niente di più naturale in una città che, nata sull'acqua della sua laguna, da cinque secoli ha mantenuto forti legami con l'entroterra, per non parlare degli scambi commerciali che i mercanti veneziani intrattenevano con i paesi più diversi e lontani, dal nord dell'Europa all'Estremo Oriente. Ecco, dunque, giungere il baccalà lungo le rotte del Baltico, le spezie preziose dalle carovane dell'Asia ma anche, più modestamente, le verdure fresche dalle isole dell'estuario, il pesce dalle acque della laguna, la selvaggina cacciata in barena.
Infatti come la diplomazia della Serenissima volgeva a Levante così la cucina veneziana non poteva rimanere estranea agli influssi orientali. Le stive delle cocche che solcavano il Mediterraneo traboccavano di aromi e droghe che portavano ai veneziani non solo la ricchezza e la spettacolarità a cui si impronta ogni attività (basti pensare alla profusione dell'oro di cui è simbolo la Chiesa di San Marco) ma anche gusti nuovi che si imponevano per la loro esoticità.
Se nel resto dell'Europa le spezie furono spesso utilizzate per conservare i cibi più che per modificarne il sapore, la cucina veneziana accolse alcuni principi alimentari levantini facendoli propri e creando pietanze nuove: è il caso del "saor" che risulta essere un esempio di equilibrio fra dolce, agro, e salato.
Le "sarde o sardelle in saor" dunque sono il piatto che meglio interpreta questo abbinamento: il pesce fritto viene adagiato in un letto di cipolle viene esaltato dal sapore agro dell'aceto e stemperato nel dolce dei pinoli e dell'uvetta passa. Questa antica ricetta, elaborata ma non difficile, permetteva la conservazione del pesce cucinato per diversi giorni, cosa non da poco in tempi in cui non esisteva il cibo in scatola e la refrigerazione. Le sarde o sardelle (sardine) erano e sono tra i pesci più popolari e diffusi, tanto è vero che la preparazione "in saor" ancora oggi si trova tanto nella cucina popolare quanto in quella delle grandi tavole.
Un piatto così storico ha un antesignano illustre, è il "cisame de pesse" dove per cisame si intende una salsa in agrodolce che troviamo già nel Libro per cuoco, un ricettario trecentesco di Anonimo Veneziano che scrive:«Toy lo pesse e frigello, toy zevolle e tagliale menude, po' frizelle ben, poy toli aceto et aqua e mandole monde intriegi, et uva passa, e specie forte, e un pocho de miele, e fa bolire ogni cossa insema e meti sopra lo pesse». Miele, mandorle e spezie forti, vale a dire chiodi di garofano, cannella e coriandolo, tanto presenti fino a tutto il Seicento vanno nei secoli successivi via via scomparendo, tanto che nel Settecento Carlo Goldoni, grande testimone di una Venezia popolare e quotidiana, nella commedia Le donne de casa soa dà una ricetta delle "sarde in saor" del tutto simile a quella che noi gustiamo ancor oggi: «far appassire in abbondante olio d'oliva un quantitativo di cipolla bianca, tagliata sottilissima, pari alla metà del peso del pesce (un chilogrammo). Quando diventa morbida e d'un bel colore biondo si aggiunge mezzo litro di aceto bianco e un quarto di vino bianco secco, dei pinoli (40 grammi) e dell'uvetta (40 grammi) di Corinto. Questa si può acquistare presso alimentaristi ben forniti, rispetto all'uva passa è meno dolce, ha la forma di bacca di color nero e va ammorbidita per qualche minuto nel vino. In una terrina di coccio si sistema uno strato di "sardele" infarinate e fritte e si copre con il "saor" procedendo a strati. Le sarde così fatte vanno conservate in un luogo fresco e mangiate dopo uno due giorni. Saranno più buone».
Ma per tornare all'Anonimo Veneziano, il suo libro è una fonte inesauribile di ricette che dimostrano il gusto orientale che ha dominato la cucina veneziana caratterizzata da grandi elaborazioni e sontuosità: una ricchezza che manca alla cucina dell'entroterra rimasta per lo più povera e legata a pochi alimenti.
Ricordiamo (soltanto a titolo d'esempio) a memoria delle glorie veneziane la gelatina di cui il nostro Anonimo fornisce la ricetta sia per la carne che per il pesce.
«Gelatina de zaschuna carne». «Se tu voy fare bona gellatina d'ogni carne: de carne de porcho salvazo, toy arechie (= orecchie) e piede et ogni cossa, e caponi, e starne, e turdi, e lepore, e caprioli, e fasani; tole queste cosse e miti queste a fogo in parte d'aqua e parte de aceto; e quando bolle et è bene spumate (= e quando il tutto bolle ed è stato bene schiumato), metigi specie e pevere e cenamo, e zenzevero, e zaverano non pestà insiema, che se chosa (=cuocia) tanto quanto con la carne. E quale carne ch'è imprima cocta, traila fuora, se gli romagnisse (= rimanesse) o arecchie, o pedi, mentre ch'è pocha sustancia (= poiché sono cose di scarsa sostanza, poco gustose). Quando è trate tutte le cosse fuora, polveriza tutta la carne di specie, e toy la gelatina da focho e lassala repossare, e toy lo zafarano e distemperalo con el zello (= gelatina), e conza la carne entro lo vaso là che tu voy che la staga con foglie de lauro, e miti suso questo zillo, e colla lo gillo et zafarano con stamegna. Quando è collato sopra la carne, toy specie dolze e stempera con questo medesimo zello, e gettalo sopra, e vole essere colorito e ben vermiglia; e mitige ananze a bolire (= prima che bolla) del sale quelo che se convene, e serà bona e bella gelatina»
«Gellatina commina e bona de pesse». «A fare gellatina de pesse per XII persone, toy tre tenghe (= tinche) grosse, toy do onze de specie forte e dolze insembremente, e mezo quarto de zafarano per si; e toy lo pese ben lavato e stato el sole un pocho, toy e lessalo in parte de aqua e de aceto fino, e mitilo a bolire. E quando è bene bollito, la prima cossa che tu ge mitti, miti de le ditte specie e zafarano, e ogni cossa, e faili bolire piano, e molto chosere. Quando è cocto, traila fuori e mitilo a refredare; habii arquante foglie de laurano ben lavate e polverizate con le ditte specie, e poy toy lo pesse e conzalo in lo vasello, e lassa riposare lo zillo. Altri fa bollire lo zafarano, altri no. Quando è refredato un pocho el çelo, yettalo suso el pesse, e metili assay specie ed è fata, etc.».
E per continuare nella storia della pubblicistica culinaria ricordiamo quel maestro Martino che nei primi decenni del XV secolo fu cuoco personale del «Reverendissimo Monsignor Camorlengo et Patriarcha de Aquileia», autore del Libro de arte coquinaria, un libro in cui sono presenti tante ricette di mostarda pestata, un tipo di mostarda che ancora oggi caratterizza molta cucina veneta differenziandosi da quella di Cremona più nota perché diffusa al di là dei confini un po' ovunque. Citiamo dunque la «Mostarda da portar in pezi cavalcando». «Habi la senapa et pistala como è ditto di sopra, et habi de l'uva passa molto ben pista; et con le ditte cose mitti de la cannella, un pochi de garofoli. Poi ne poterai fare pallottole tonde a modo di quelle che se traggono con l'archo, o pezoli quadri di quella grandeza che ti pare et ti piace; et li metterai per un pezo ad asciucchare sopra una tavola, et sciutti tu li poterai portare de loco ad loco dove tu vorrai. Et quando li vorrai usare li poterai stemperare con un pocho d'agresto, o aceto, o vino cotto, cioè sapa». Nel Cinquecento sulle tavole dei veneziani ma anche dei signori di alcune città dell'entroterra (pensiamo che i veneziani chiamavano il territorio trevigiano "marca gioiosa") compaiono anche le carni, soprattutto dei volatili grossi come i fagiani ma ancor più i pavoni splendenti nelle loro penne. Segnaliamo una ricetta di Maestro Martino, a suo dire indicata per entrambi i volatili, oltre che per le "gruve". «Per fare pavoni vestiti che parono vivi». «Per fare pavoni vestiti che parono vivi: in prima se vole amazzare il pavone con una penna, ficcandogliela sopra al capo, o veramente cavargli il sangue sotto la gola como ad un capretto. Et dapoi fendilo sotto lo corpo, cioè da lo collo per insino a la coda, tagliando solamente la pelle et scorticarlo gentilmente che non guasti né penne né pelle. Et quando tu haverai scorticato il corpo inversa la pelle del collo per insino a presso al capo. Poi taglia il ditto capo che resti attaccato a la pelle del collo; et similmente fa' che le gambe restino attaccate a la pelle de le cosse. Dappoi acconcialo molto bene arrosto, et empielo de bone cose con bone spetie et togli garofoli integri et piantagli per lo petto, et ponilo nel speto et fallo cocere ad ascio; et d'intorno al collo ponevi una pezza bagnata aciò che'l focho non lo secchi troppo; et continuamente bagnia la dicta pezza. Et quando è cotto cavalo fore e rivestilo con la sua pelle. Et habi uno ingegno di ferro fitto in un taglieri et che passi per i piedi et per le gambe del pavone aciò che'l ferro non se veda; et quel pavone stia in piedi dritto col capo che para vivo; et acconcia molto bene la coda che faccia la rota. Se voli che gitti focho per il beccho, togli una quarta oncia de canfara con un pocha de bombace sì intorno, et mittila nel beccho del pavone, et mettivi etiamdio un pocha de acqua vite o de bon vino grande. Et quando il vorrai mandare ad tavola appiccia il focho nel dicto bombace, et gietterà focho per bon spatio di tempo. Et per più magnificenza, quando il pavone è cotto, si pò indorare con fogli d'oro battuto et sopra lo ditto oro porre la sua pelle, la quale vole essere imbrattata dal canto dentro con bone spetie. Et simelmente si po fare de fasciani, gruve, oche et altri ocelli, o capponi o pollastri».
Oggi sopravvive l'uso dell'«Oca in onto» che letteralmente significa l'oca sotto grasso. Vi facevano ricorso le famiglie veneziane per conservare sufficienti scorte di carne nutriente e di grasso per l'inverno. Oggi si trova ancora nell'uso familiare e in determinate botteghe di tradizione. L'oca viene messa in un recipiente coperto con una base d'olio, rametti di rosmarino, spicchi d'aglio, sale e pepe. Si lascia cuocere adagio in modo che esca la maggior quantità possibile di grasso. Quando la carne dell'animale è abbastanza tenera, si toglie, si elimina la pelle e si disossa tagliando a pezzi i petti e le cosce. In un orcio di terracotta (il pignatto di un tempo), oggi sostituito da più pratici vasi di vetro, si deposita sul fondo uno strato di grasso dell'oca e, appena rappreso, si mettono i pezzi dell'oca con qualche foglia di alloro. Si prosegue così a strati successivi finché tutto il grasso e tutta l'oca sono sistemati. L'ultimo strato è ovviamente di grasso, coperto con foglie d'alloro e con olio d'oliva. L'oca preparata con questo sistema si conserva per alcuni mesi. L'unica cura è, man mano che si consuma, fare in modo che quanto rimane sia sempre coperto di grasso.
Riferimenti alla raffinata cucina veneziana si trovano anche nelle ricette contenute nell'Opera di Bartolomeo Scappi, probabilmente di famiglia veneta, che fu cuoco di vari cardinali e del Papa Pio V.
Si tratta di salse e mostarde che ricalcano preparazioni orientali ricche di spezie che vengono usate anche nella cottura del pesce come si può constatare nella ricetta «Per cuocere pezzi di storione sottestati». «Piglinosi dieci libre di storione tagliato per traverso in pezzi, li quali non siano di altezza più che un dito (il che si fa accioché abbiano a cuocersi presto e rimangano più morbidi), faccianosi stare li detti pezzi l'un sopra l'altro per meza ora, avendoli prima spolverizati di pepe, cannella, garofani, noce moscate e sale, e poi stendanosi in una tortiera di rame stagnata o di ferro, nella qual sia una libra e meza d'oglio d'olive dolci, over butiro; pongasi con esso una foglietta di mosto cotto, un bicchiero d'aceto et un di agresto, una libra e meza di prugne secche ben lavate e una libra di zibibbo; e faccianosi cuocere nel modo che si cuoceno le torte con il foco sotto e sopra, overo nel forno; e cotti che saranno servanosi così caldi con la medesima composizione sopra; et in giorno grasso in loco d'oglio o butiro, si adoprerà strutto con essi pezzi e si potranno stufare pezzi di sommata dissalata (= lonza di porco, tolta dal sale) con le medesime materie sopradette».
Ma in questo excursus storico non possiamo dimenticare il famosissimo Francesco Leonardi autore dell'opera L'Apicio moderno che a confronto con i trattati della seconda metà del XVIII secolo ci appare strutturato nella forma di una vera e propria enciclopedia gastronomica. Già nella prima parte di quest'opera organizzata in sei parti ci imbattiamo in una ricetta di "Zuppa di riso alla veneziana", alimento che i veneziani adottarono dai Turchi e imposero a tutti i loro domini.
Un piatto fortunato della cucina veneziana ma possiamo dire anche veneta è il famoso fegato alle cipolle di cui il Leonardi ci offre la seguente ricetta: «Fegato di mongana alla veneziana». «Tagliate in filetti quattro i cinque cipolle, passatele sopra il fuoco in una cazzarola con un pezzo di butirro, un poco d'olio, e fatele cuocere dolcemente senza che prendino calore. Abbiate un fegato di mongana, levategli la pelle ed i nervi, tagliatelo in fette ben fine, e poco prima di servire ponetelo insieme con le cipolle sopra un fuoco alquanto allegro; aggiungeteci del petrosemolo trito, fatelo cuocere al suo punto movendolo spesso, e servitelo un poco digrassato, con due cucchiai di culì, e un gran sugo di limone».
Nell'opera La nuova cucina economica del romano Vincenzo Agnoletti pubblicata nel 1814 c'è una curiosa ricetta «Ale alla chiozzotta» che se è di indiscussa economicità è anche molto elaborata, testimonianza di come le spezie siano entrate anche nella cucina più povera di questa terra.
«Appropriate (= preparate) delle ale di tacchino senza disossare; fate intiepidire una marinata fatta con un pezzo di butirro, un poco di farina, mezzo bicchiere di aceto, un poco d'acqua o brodo, sale, un poco di pepe pesto, mezzo spicchio d'aglio, due garofani, una fetta di cipolla, un pezzo di carota, un tantino di alloro, fusti (= gambi) di petrosemolo, una zesta (= fetta sottilissima ritagliata dalla buccia) di arancio ed un poco di basilico; metteteci a marinare le ale per quattr'ore, asciugatele poscia con un panno pulito, intingentele nel bianco d'uovo sbattuto, infarinatele, friggetele nello strutto e servitele con petrosemolo fritto all'intorno».
L'Agnoletti fornisce anche la ricetta dei Budini (= sanguinacci) alla veneziana, pure ricchissimi di spezie.
Ricordiamo del libro dell'Agnoletti anche la ricetta dei «Zalletti alla veneziana», dolci tipici ancora molto diffusi mentre discussa è la derivazione del termine "zalletti" che può significare "gialletti" per il colore dovuto all'uso della farina gialla o "galletti" dovuto alla forma di galletti che spesso si dà a questa pasta.
«Zaletti alla veneziana». «Mescolate insieme tre libbre di farina di formento con una libbra e mezza di farina di granturco setacciata ben fina, indi, fattegli un buco nel mezzo e stemperateci una pagnotta di lievito con acqua tiepida a discrezione. Dopo dieci ore, uniteci altre tre libbre di farina di formento con un'altra libbra e mezza di quella di granturco, mezz'oncia all'incirca di sale, due libbre di butirro fresco, un pizzico di anisi, un poco di scorretta trita di cedrato o di portogallo (= arancio) e tre libbre di zibibbo ben mondato e lavato; fatene con acqua tiepida una pasta maneggevole e piuttosto tenera, indi formatene tanti grossi bastoncelli schiacciati lunghi un dito sopra le tielle e poneteli in una stufa tiepida; allorché saranno lievitati al suo punto, indorateli con uova sbattute e fateli cuocere al forno di ben colore, quindi, se volete, glassateli con zucchero a tiraggio, fate asciugare la glassa e serviteli ben caldi sopra una salvietta. Se invece di due libbre di butirro ve ne metterete due libbre e mezza, saranno migliori».
Un piatto che forse più di ogni altro può essere ritenuto "unificatore" della cucina veneta e veneziana è il baccalà. Più propriamente si tratta dello stoccafisso (termine che significa pesce bastone perché è baccalà seccato con molto sale per ragioni di conservazione) proveniente dal Nord Europa, importato come merce di scambio nei traffici delle spezie, ha trovato in questa regione un'accoglienza e una penetrazione particolare. Gode ancora oggi di una presenza costante tutto l'anno e ovunque, soprattutto servito mantecato con la polenta: una crema delicata e gustosissima che i veneti mangiano con l'aperitivo, come antipasto, come primo o come secondo, sempre: un cibo che non è uscito dai confini della regione ma che appare nelle cene di gala (per le quali a Venezia le occasioni sono moltissime) come nella quotidianità, anche sulle tavole più semplici.
Ricordiamo però anche il famoso baccalà alla vicentina che "el ga da pipar" (deve cuocere) per circa due ore e la cui ricetta oggi presenta molte varianti sulle quali esperti gastronomi discutono a lungo: se fra gli ingredienti c'è il latte, c'è il sedano, ci sono le patate ecc. ecc. È certo che accompagnato con la polenta fresca il baccalà alla vicentina nelle sue varie preparazioni è un piatto gustosissimo.
Fra i dolci la cui presenza è insistente su tutte le tavole per tutto l'anno anche se sono tipici di Carnevale, ricordiamo i «Golosessi», semplici spiedini di legno sui quali sono infilzati in successione fichi secchi, albicocche secche, mezze noci e altro, che vengono poi immersi nello zucchero caramellato e lasciati asciugare e raffreddare. Sono una versione antica dei "lecca lecca", di cui non si conosce una precisa origine. È tuttavia da osservare che la stessa preparazione si trova abitualmente in Cina nei mercati delle città. Si può pensare che sia un ricordo raccontato da Marco Polo e prontamente catturato dai pasticcieri veneziani.
Mentre tipicamente natalizio e veronese è il pandoro, un dolce difficilissimo da realizzare in casa, tanto che solo i pasticcieri - e naturalmente le industrie - sono in grado di eseguirlo correttamente. Dev'essere alto, soffice, leggerissimo, spolverato con zucchero a velo.
Alla cucina veronese appartiene un'antica usanza per festeggiare il Carnevale, e precisamente il venerdì grasso con un piatto principe della cucina cittadina. Venerdì gnocolar è una sagra che si svolge dal Cinquecento a ricordo di una distribuzione gratuita di farina, formaggio e vino dopo una carestia e si svolge nel quartiere di San Zeno, dove i popolani eleggono ogni anno il re del Carnevale, con una gran pancia finta piena di gnocchi e una forchetta come scettro. Dopo la sfilata dei carri mascherati vengono distribuiti gnocchi a tutti i presenti. Si tratta dei «gnocchi di San Zeno» eseguiti secondo la ricetta delle famiglie nel rione di San Zeno, ma sempre acquistabili nelle botteghe di alimentari della città. L'impasto è tradizionale: patate farinose, farina, uova e sale. I pezzettini di pasta vengono fatti rotolare su una grattugia perché abbiano "i so brufoli a fior de pansa", quindi bolliti in acqua salata. Il condimento tradizionale è a base di burro fuso e formaggio, ma il vero piatto della festa vuole il sugo della pastissada de caval, l'intenso spezzatino di carne di cavallo, piatto bandiera della cucina veronese.
Un cibo che utilizza due dei quattro alimenti base della cucina veneta è la «polenta fasoà», tipica del Padovano, preparata cuocendo la farina di granoturco bianco con una zuppa di fagioli lessati arricchita da strutto di maiale. Rassodata, tagliata a fette e arrostita sulla brace, è il contorno ideale per le braciole di maiale alla griglia. A Padova è cibo "di devozione" per i Defunti. Una forma analoga di preparato è detta, nelle campagne, pendolon, perché costituiva in passato la colazione tipica del contadino quando andava al lavoro nei campi buttandosi la giacca sulle spalle. In una delle maniche, annodata in fondo, veniva messo l'involto con il cibo, da cui il detto popolare "el se porta drio 'na manega de pendolon".
Specialità locali spesso legate a festività si trovano in tutto il Veneto, ma - ricordiamolo - ovunque gli alimenti base di questa cucina (a parte il posto d'eccezione che spetta alla ricca cucina di Venezia) sono quattro: polenta, riso, fagioli, baccalà, a cui possiamo aggiungere le patate e gli ortaggi. Una cucina, quella veneta, che ha conservato molte tradizioni anche perché è rimasta radicata nel territorio a differenza di tanti piatti italiani (basti pensare alla pizza alla napoletana presente in tutto il mondo); si deve gustare localmente e pertanto ha mantenuto un'eccezionale genuinità che deve sempre più essere apprezzata.
Tra il respiro dell’Adriatico che spinge le sue onde verso i litorali veneti e il fruscio dei tanti fiumi che stemperano con le loro acque trasparenti il sapore salato della laguna, sorge quella meravigliosa città delle acque che, col magico nome di Venezia, ha fatto nascere e prosperare uno stato libero e indipendente per più di mille anni, creando una civiltà unica al mondo, equilibrata e stratificata in un ritmo di vita pieno di armonia, gioia, arte e fantasia anche nel campo della gastronomia.
L’alimentazione di queste popolazioni lagunari, basata inizialmente sul pesce e sulle produzioni orticole delle isole dell’estuario, preparati con una serena e primitiva semplicità, si è mano a mano arricchita con quelle saporite e piccanti spezie e quelle ricercate mercanzie alimentari che il misterioso e tumultuoso oriente faceva arrivare a Venezia con gli intraprendenti navigatori e commercianti che la popolavano. Si diceva nei secoli d’oro di Venezia, città fra le più popolose e attive d’Europa, che a Venezia non si produceva niente, ma che ci si trovava di tutto. Spesso, beninteso, a caro prezzo.
Tale era la potenza di una città dedita al commercio, piena di realtà finanziarie e motore di ogni iniziativa grazie alla sua larghezza di mezzi. Non c’erano i piselli per la tradizionale minestra di “risi e bisi” per la grande festa di San Marco del 25 aprile, che veniva sontuosamente imbandita sulla tavola del Doge e dei grandi dignitari della Repubblica di Venezia nella famosa sala dei “banchetti”, perché i teneri baccelli di Borso del Grappa, di Lumignano, della Riviera Berica non erano ancora maturi, causa lo scarso sole di una ritardata primavera, e allora, niente paura, i piselli si facevano arrivare qualche giorno prima da 450 chilometri di distanza, con carriaggi speciali innaffiati di quando in quando, dalla lontana Liguria, dove la mite temperatura rendeva rigogliose le tante colline a mezzogiorno che scendono dolcemente verso il mare.
“Ogni riso un biso”, ma quanto costavano quei piselli della Liguria?
Non ci si badava, perché la ricchezza di Venezia era proverbiale.
Le spezie o le droghe poi erano molto care (un sacchetto di pepe poteva essere lasciato in eredità come un bene di notevole valore), ma si usavano ugualmente a Venezia con larghezza, anche per mascherare spesso il cattivo sapore delle carni non bene conservate, e nelle osterie per far bere più vino.
Le schede preparate a cura dell’Istituto Alberghiero Barbarigo di Venezia danno una idea di ciò che rappresenta la cucina veneziana.
Un compito attento che riassume validamente l’origine del piatto e il modo di prepararlo, con l’aggiunta di un prospetto nutrizionale e consigli per l’accostamento del vino, a completamento professionale delle notizie relative a ogni pietanza.
Spiccano tra i piatti di pesce le seppie col nero alla veneziana, cibo ormai noto alla gastronomia internazionale, unita a una morbida polentina e i tanti risotti all’onda o mantecati con le “cape” e con gli scampi, “i folpeti lessai” che troviamo ancora nelle osterie e nei “bacari” di Venezia e le “sardèle in saór” che si arricchiscono d’inverno con i pinoli e con l’uvetta sultanina, tuttora una risorsa alimentare a basso costo.
La “castradina” è un piatto particolare, perché ricorda la festa della Salute e la fine della peste del 1630, quando la Repubblica di Venezia per alimentare la popolazione della città rimasta senza carne per mancanza di rifornimenti mentre imperversava il morbo, ne importò grandi quantità con le navi, dall’Albania e dal Montenegro.
Non mancano i dolci, le tradizionali “fritole”, i “baicoli”, biscotti da servire col caffè, i “buzzolai veneziani”, le spumiglie, che insieme con gli altri “golosessi” allietavano le tavole, magari con un bicchierino di marsala, vino di Cipro o Malvasia greca.
Il Veneto è arguto, fin nella lingua. Venezia ne ha plasmato lo spirito mercantile per secoli, abituandolo a muoversi tra la tradizione e la modernità, tra la conservazione gelosa delle proprie radici e la messa a frutto intelligente dell'esotico, di ciò che è proprio di altre terre e di altri climi.
Il repertorio gastronomico veneto è vario e sapiente, tratti che caratterizzano tutti i suoi prodotti, anche i più apparentemente semplici. Risotti, minestre di verdura o di fagioli, fumanti polente, gnocchi e gustosi "bigoli" onorano il settore dei primi piatti mentre, tra i secondi il pesce si impone con "sardelle", capesante, grancevole, anguille, seppie, zuppe e con il celebre "baccalà alla vicentina".
Le carni sono preparate in modo molto semplice e i relativi piatti comprendono molti animali selvatici e da cortile, nonchè intingoli tradizionali come la storica pastizada de caval veronese.
I dolci numerosi e tipici sono spesso rustiche preparazioni a carattere prettamente locale, ma alcuni come il pandoro veronesee il bussolà vicentino, hanno allargato la fama oltre i confini della regione come, del resto, i generosi vini di questa terra ricca di vigneti.
CUCINA TIPICA VENETA PRODOTTI TIPICI DEL VENETO
Veneto: patria dell'Amarone
Il Veneto vanta tradizioni vitivinicole antichissime: prima gli antichi Romani, poi durante il Medioevo gli ordini monastici, successivamente la Serenissima Repubblica Marinara di Venezia, hanno sviluppato e tramandato la cultura del vino. Oggigiorno il Veneto è la regione italiana che produce la maggiore quantità di vini D.O.C. , in particolare vini bianchi. Nella zona occidentale della regione sono ancora diffusi vitigni autoctoni, come la Garganega, mentre nella zona orientale che ha subito maggiormente le devastazioni provocate dalle due guerre mondiali, troviamo vitigni di importazione francese come il Merlot, il Pinot, ed il Sauvignon. Vediamo quali sono le zone vinicole principali.
A destra del lago di Garda e a nord della città di Verona si estende la zona del Veronese suddivisa nelle sottozone del Bardolino, Valpolicella, Soave e Gambellara. Le ultime tre sottozone sono caratterizzate dalla produzione di un vino che ha ottenuto recentemente la D.O.C.G. per la sottozona di Soave: il Recioto. Il nome deriva da “recia” che nel dialetto locale significa “orecchia” e sta ad indicare le parti del grappolo più esposte al sole. Sono infatti queste uve che, selezionate durante la vendemmia, vengono poste ad appassire e vinificate verso dicembre, a volte anche a febbraio, per dare origine ad un vino che può essere dolce oppure secco a seconda che la svinatura avvenga quando ancora non tutto lo zucchero si è convertito in alcol oppure quando questo processo si è completato. Tra i Recioti secchi si distingue l’Amarone: uno dei vini più rinomati della regione dal bel colore rosso granato carico, dal caratteristico profumo che ricorda le mandorle amare (e da qui il nome) e dal sapore pieno, vellutato e caldo.
Spostandoci verso nord est in prossimità della città di Treviso incontriamo la zona del Trevigiano. E’ nel Trevigiano, in particolare tra le due cittadine di Valdobbiadene e Conegliano, che si coltiva il vitigno autoctono Prosecco che dà origine ad uno spumante tra i più conosciuti di Italia: il Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene, vino generalmente amabile o dolce, che raggiunge la massima espressione nel territorio della frazione di San Pietro di Barbozza dove prende il nome di Superiore di Cartizze.
A nord di Vicenza troviamo la piccola (per estensione non per importanza!) zona di Breganze che si stende intorno alla cittadina da cui prende il nome. Qui viene coltivata un uva di antiche tradizioni, la Vespaiola, il cui nome deriva dalle vespe che affollano i grappoli quando giunti a completa maturazione lasciano traspirare il loro succo dolce. Da questa particolare uva si ottiene uno dei grandi vini da fine pasto italiani: il Torcolato. Vino dolce passito dal colore giallo oro o ambrato, caratterizzato da un profumo intenso di miele e adatto all’invecchiamento.
La gastronomia Veneziana
Per comprendere la cucina veneziana dobbiamo ripercorrere la sua storia partendo da quello che fu il secolo di vero splendore per la città:il settecento.
Nella Venezia settecentesca, si viveva meravigliosamente e i piaceri della tavola non erano piccola parte di quello stile di vita, di quello spirito raffinato che consegnò alla Repubblica il nome di Serenissima.
I Veneziani,da ottimi commercianti, capirono che quel cereale giallo come l'oro venuto di là dell'oceano verso la metà del Cinquecento, era ideale per far polenta. Le preparazioni più classiche la vedono insieme agli «osei» e al baccalà, ma la polenta è presente ovunque: la si ritrova abitualmente anche in tutte le trattorie tipiche come compagnia di piatti svariatissimi. Altro protagonista della tavola è il baccalà, che in tutto il Veneto viene preparato in modo sublime per renderlo ancora più gustoso.
La gastronomia di Verona
Quando parliamo della gastronomia tipica di questa meravigliosa città non possiamo non tornare indietro nel tempo e ripercorrere la sua storia così particolare e ricca di eventi che hanno influenzato tutta la gastronomia.
Dal 1814,la città, passò definitivamente sotto l'Austria e vi rimase fino al 1866 quando fu unita all'Italia.
E' questa Una cucina che si differenzia notevolmente fra quella povera, quella che ancora oggi è in uso nelle zone di montagna, e quella cittadina, legata alle antiche e ricche tradizioni di Verona. In montagna domina la polenta che si mangia in accompagnamento a ogni cibo.
L'anatra e la faraona imperano nelle tavole di tutto il Veneto e di Verona in particolare, dove vengono accompagnate, come altre carni, con la "peverada", la più famosa salsa veneta che si prepara con brodo, spezie, pangrattato, burro, salumi, molto pepe e, a Verona, midollo di bue, a Treviso fegato d'oca o di lepre. La leggenda narra che con la "peverada" un cuoco di corte riuscì a far tornare l'appetito a Rosmunda dopo la crudele bevuta impostale da Alboino. Rosmunda era figlia di Cunimondo re dei Gepidi: prigioniera di guerra poi sposa del re Longobardo Alboino dopo che egli aveva sconfitto le truppe di Cunimondo entrato in guerra con i Longobardi perché - secondo la leggenda - Alboino aveva rapito Rosmunda. Una volta sconfitto Cunimondo fu ucciso e dal suo cranio fu ricavata una coppa dalla quale Rosmunda fu costretta da Alboino a bere con le parole «Bevi Rosmunda dal teschio di tuo padre!». L'azione non rimase senza vendetta perché qualche anno dopo Rosmunda fece ammazzare il marito Alboino.
La cucina tradizionale e quella curativa
Il Veneto è una regione ricca sia di storia che di antiche tradizioni che sono rimaste immutate nel tempo e che ancora oggi vengono rispettate e tramandate di padre in figlio.
Molta importanza rivestono i cibi rituali che sono legati alla celebrazione delle feste liturgiche e a quanto resta ancora dei riti agrari del lunario contadino, che ha scadenze e ritmi talvolta diversi dal calendario.
L'anno contadino, infatti,inizia con la celebrazione dei Morti che offre ancora una ritualità di sapore naturale e vetero cristiano.
Breve calendario dei cibi rituali
1-2 novembre, Ognissanti e i Morti: patate mericane (patate dolci), i trandoti o pan dei morti, brazadelon (focaccia), faoline (fave), miole de zuca (semi di zucca), i maroni (castagne e marroni), papazin o bole (polentina di castagne)
11 novembre, San Martino: galeto (galletto), carne a poceto e carne in salata, i Sanmartin di pastafrola (San Martini di pastafrolla)
25 novembre, Santa Caterina: Da Santa Lucia (13 dicembre) a Natale: mas-cio (maiale), saladi (salami), fegato con sangue cotto, rognoni in graticola, galzega del porco (risotto con il tastasale)
24 dicembre: la Vigilia: bigoli co la sardela, mandorlato e vin bon
25 dicembre: osso magon (ossocollo), bigoloto de Nadal o nadalin (dolce), risoto con el tastatale
1 gennaio, Capodanno e 6 gennaio, Epifania: carne di pollo, carne di maiale
Il Carnevale: maiale, vin bon e fritole (frittelle), brazelo (ciambella), bigoloto (focaccia), grustoli o sfoiade (dolci)
La Settimana Grassa: bigolada (gnocchi e frittelle)
Le Ceneri e la Quaresima: renga e salata (aringa e insalata), rane, baccalà, frittata con i gamberi
La Mezzaquaresima: bigoli, paparoti, taiadele, maltaià, lasagne (tipi di pasta), riso e bruscanzoli (bruscandoli), riso a scapadora (fatto in fretta
Pasqua: taiadele (o paparele) bo e vin tondo (tagliatelle in brodo di carne e vino forte), brazadela o fugassa (ciambella)
Lunedì dell'Angelo: uova con sale e pepe
Ascensione: codeghina (cotechino)
Estate: panzeta imanegà (arrotolata con chiodi di garofani e legata a salame), panzeta soto onto (conservata nell'unto di maiale), sardele, polenta e zeola freda, ochete (oca sotto unto), fritaia coi pomodori, ovi in pocio, fighi in pocio, pan e anguria, melanzana in padelin, melanzane al fogheto, peperonata, zeole ciodote (cipolle chioggiotte), anitra ripiena
La Mezzastagione autunnale: fagioli, zucche, frutta autunnale, patate rosto (trifolate), zuca soto la zendare (zucca arrostita sotto la cenere), zuca cota (lessata), fasoi in asedo (fagioli in insalata), fasoi in teia (teglia), riso e fasoi (riso e fagioli), riso e zuca (riso e zucca), polenta infasolà (polenta con i fagioli), panocia brustolà (pannocchia abbrustolita), fantoline (pop corn rustici)
Cibi, erbe e frutta entravano nella cucina povera, come in quella ricca, e oltre ad essere usati come alimenti vantavano proprietà curative.
La spiegazione del come si giunse alla cernita dei vegetali utili alla alimentazione e degli altri necessari alla salute si spiega con la "magia simpatica", per cui il "simile chiama il simile". Basando la propria scelta tra la somiglianza di alcuni vegetali con certe parti anatomiche, gli antichi veneti iniziarono delle terapie non ancora del tutto scomparse tra la gente.
Per esempio,Secondo i canoni della "magia simpatica", il guscio e il gheriglio della noce, corrispondono alla calotta cranica e al cervello umano, per cui la parte commestibile fu adottata per trattare le malattie mentali.
I prodotti tipici veneti
Prosciutto veneto.
In Veneto, l'arte di lavorare e conservare le carni suine era ben nota prima dell'avvento dei Romani, grazie all'abbondanza di maiali nei boschi e alle condizioni climatiche particolarmente adatte alla stagionatura. Addirittura, dal III secolo a.C. si sviluppò un'intensa esportazione di questi prodotti verso Roma, che durò fino al crollo dell'Impero.
Questo prosciutto è ottenuto da cosce fresche di suini adulti, di solito appartenenti alle razze Large White e Duroc, nutriti, nell'ultimo periodo, con sostanze ad alto contenuto proteico. Le cosce, vengono raffreddate, ripulite e salate due volte con un intervallo di cinque giorni.
Radicchio di Treviso
Famoso protagonista di diversi piatti è il radicchio di Treviso.
Due le Denominazioni d'origine protetta, con caratteristiche abbastanza diverse: il Tardivo e il Precoce. Il Tardivo, di solito, ha il cespo più piccolo, pesa al massimo 400 grammi, è dotato di foglie rosso vinoso a costola bianca leggermente chiuse in punta e di una radice di circa 6 centimetri. Il Precoce, invece, ha le foglie bianche con una nervatura molto accentuata. Il cespo è più grande, affusolato e chiuso; la radice è piccola. Il peso raggiunge al massimo i 500 grammi. Il sapore, contrariamente al Tardivo, è amarognolo.
Formaggi
FORMAIO EMBRIAGO O UBRIACO
risale al tempo in cui i contadini "ubriacavano" il formaggio con mosto e vinacce di raboso, cabernet e merlot invece di trattare la crosta con il più costoso olio. Aromatico e piccante, è tipico della provincia di Treviso, della sinistra del Piave e di Preganziol.
PECORINO VENETO
la pasta viene posta negli stampi a crudo, per ottenere una caciotta morbida; se la si fa cuocere, diventa un formaggio a pasta dura e a lunga conservazione. La produzione, tipica della zona di Pegolotte (Venezia) e delle province di Padova e Mantova, è piuttosto limitata.
RICOTTA AFFUMICATA
prodotta nella zona dell'Agordino, di Sappada e nella piana del Cansiglio, viene trattata con legna di conifere verdi. Dopo almeno un mese di stagionatura, si può grattugiare.
Pasta
BIGOLI: sono ruvidi e grossolani spaghetti di pasta fresca, a volte integrali, a volte di grano duro.
CASUNZIEI: i bellunesi sono farciti con zucca o spinaci e prosciutto cotto tritato; gli ampezzani, ripieni di bietole bollite e saltate nel burro, mescolate con ricotta, pangrattato e uova.
GNOCCHI DI SAN ZENO: preparati per il Carnevale veronese e cucinati per l'occasione col tipico spezzatino di cavallo. I pezzetti di pasta vengono fatti rotolare su una grattugia perché abbiano i brufoli a fior de pansa.
STORIA DELLA CUCINA VENETA
Treviso e la Marca Trevigiana
La denominazione di marca trevigiana non ebbe mai valore politico o amministrativo; appare invece - più volte nel Medio Evo e soprattutto alla fine del XIV secolo - a indicare il dominio veneziano di terraferma. La città di Treviso dal 1339 fu quasi ininterrottamente sotto il dominio di Venezia fino alla caduta della Repubblica nel 1797. Passò poi all'Austria e fu liberata dalle truppe italiane nel 1866.
Treviso, capoluogo di provincia, sorge nella pianura veneta alla confluenza del Sile col Botteniga a trenta chilometri da Venezia. Il suo territorio è limitato dai fiumi Sile, Zero e Musone a ovest, dalla Livenza a est, è attraversato dal Piave, è distribuito fra i colli di Asolo, del Montello, di Valdobbiadene, gli speroni del Grappa e delle Prealpi Bellunesi e la sottostante e digradante pianura, ricca di risorgive e fertili campagne. Terra fertile dedita all'agricoltura e all'allevamento del bestiame, ha partecipato dello splendore di Venezia che ha lasciato traccia nella sua cultura, tanto da essere definita Marca Gioiosa per il carattere ludico e godereccio dei suoi abitanti che ancora oggi la caratterizza.
In questa terra esiste una filosofia del cibo, una passione gastronomica che induce studiosi e intellettuali a discutere di ricette che si vanno creando o riscoprendo da antichi testi, che vengono riproposte attraverso varie rielaborazioni. Una passione gastronomica di cui Treviso e la sua marca sono state investite per cui sono divenute - per riconoscimento di molti addetti ai lavori - la città e la provincia gastronomicamente al primo posto in Italia. Una cucina ben radicata nella tradizione ma anche vitale nella continua ricerca di nuove ricette, una cucina che ben si accorda con il carattere gioioso dei trevigiani che ha guadagnato a questa terra l'epiteto di "marca gioiosa".
Un piatto che nella cucina trevigiana occupa un posto di tutto rispetto è il bollito. Quello "classico", proposto dalle "Beccherie", si compone di molte varietà di carni: scapino di manzo, gallina, lingua, testina, cotechino o bondiola, talvolta lingua salmistrata. Cuociono insieme il manzo e il pollo, ovviamente in tempi diversi, anche se certe pollanche dalla carne soda richiedono pure esse una cottura prolungata. Manzo e pollo forniscono un brodo saporitissimo, che sarà aromatizzato con una cipolla con infilzati a stella sei chiodi di garofano, con due coste di sedano con foglia, o con un sedano rapa piccolo, con due belle carote, con due foglie d'alloro. C'è chi aggiunge due spicchi d'aglio. Ci vogliono fra tutto quattro ore di cottura circa perché le carni raggiungano la dovuta tenerezza. Lingua e testina si cuociono insieme, a parte. La lingua salmistrata va bollita prima per un'ora, cambiando poi l'acqua per la cottura definitiva. Anche salmistrata la lingua può essere cotta con la testina alla quale cederà un po' del proprio profumo. Cotechino e bondiola vanno cotti a parte. Si accompagna il bollito con una scodella di legno piena di sale grosso, da cospargere sulle carni bollenti ognuno sul proprio piatto. Si serve insieme con un vaso di vetro con gli "acetini" (sottaceti) e un altro con cipolline, e un altro ancora con peperoni, sempre sott'aceto.
Una variante povera ma gustosa del ricco e costoso bollito è la «ossada»: ossa di vitello e di manzo, ricche di parte gelatinosa delle cartilagini; talvolta vi si aggiungevano pezzi di coda e zampetti di vitello. Si serviva il tutto bollente in un gran piatto, accompagnando con la ciotola del sale grosso, e con una radice di cren da grattugiare direttamente sul proprio piatto.
Quando la stagione diventa fredda e la rugiada diventa brina al mattino, nel Trevigiano si usa consolarsi il cuore, attraverso lo stomaco, con una zuppa corroborante, che quasi sempre è di trippe. Trippa del consolo e del ristoro offerta, al mattino, nei giorni felici degli sponsali, agli amici che vanno a prelevare lo sposo o la sposa, ed è come l'inizio di un rituale gastronomico che dura poi per una giornata intera. Trippe mattinale nelle osterie della città segnalate da un apposito cartello, appunto quell'"oggi trippe" che, conclusi gli affari, la gente della campagna, con la "timonella" o il "birocin", trainati dal cavallino fidato, e i sensali di città, coi loro "tabari" o le loro "ponçelete" (giacconi pesanti col collo di pelliccia, agnello o per lo più coniglio) sorbivano con gran soddisfazione, quasi a premio dell'affare compiuto. Seguivano il quartino di vino vecchio o nuovo, che poteva diventare litro o più con relativa euforia e vocazione al pisolo, ma erano sino a mezzo secolo fa tempi tranquilli, con poco traffico per le strade, e il cavallino poteva portare anche a casa un padrone addormentato, nitrendo per risvegliarlo, solo quando fosse giunto alla porta della propria stalla, esprimendo desiderio di "carote" di "avena" o anche solamente di fieno e acqua.
La trippa con la «pasta e fasioj» potrebbe essere il simbolo dell'alimentazione veneta e in particolar modo trevigiana, perché ci sembra che siano proprio nella Marca Gioiosa le osterie depositarie della più antica e legittima ricetta della «sopa de trippe» che di regola deve essere "in bianco". Trippa che aveva una sua notorietà sin dai tempi del Burchiellati.
Oltre alla minestra nel Trevigiano la trippa ancora oggi viene cucinata anche al sugo, tagliata a listarelle sottili insaporite con un battuto di lardo, olio, cipolla, aglio, molta carota, sedano, prezzemolo, basilico, rosmarino e salvia. Si irrora poi di vino bianco, si copre di salsa di pomodoro diluita nell'acqua o nel brodo; si spolvera di noce moscata facendola bollire lentamente finché la trippa sia tenera e il sugo sia ristretto. Si serve con abbondante formaggio parmigiano grattugiato.
Anche la pasta e fagioli è un vero classico della gastronomia veneta e di Treviso in particolare; una minestra che richiede una lunga cottura e molti ingredienti aromatizzanti. Alla base vi è un soffritto di cipolla, carote, sedano, rosmarino, alloro; per renderla più densa qualche fetta di patata, viene poi arricchita da orecchie, piedino, codino del maiale. Alla fine la zuppa è pronta ad accogliere le tradizionali «tirache», denominazione dialettale delle bretelle che in gergo culinario-popolaresco definiscono una qualità di tagliatelle di semola di grano, piuttosto consistenti, impastate senza uovo che però possono essere sostituite sia dagli spaghetti sia dalle tagliatelle all'uovo, sia infine dal riso.
I prodotti derivanti dal maiale sono molto diffusi in tutto questo territorio. Infatti nella Marca Trevigiana il maiale ha avuto sempre un ruolo assolutamente primario nell'alimentazione, specialmente delle campagne. Sino a non molto tempo fa era la sola carne, o quasi, di cui si nutrissero i contadini, per i quali il quotidiano bollito dei nobili e dei borghesi della città, era la sola vivanda festiva o "da nòze". Del maiale si utilizzava tutto. Dopo l'animata festosità della giornata dell'uccisione, la grande cucina accoglieva per qualche giorno i vari insaccati perché si asciugassero al calore e al fumo del focolare. C'erano festoni di "luganeghe" da "rosto" e da brodo e molti bastoni erano appesi parallelamente alle travi, e da questi pendevano, gocciolanti di umori, i musetti, i cotechini, le bondiole, i salami, le soppresse, gli ossocolli e la vescica piena di strutto. Con il sangue del maiale si preparavano i «baldoni», o budini, o torte, o «el sangueto» da cuocere a pezzetti come il fegato alla veneziana. Con la parte del collo del maiale che, appeso a testa in giù, riceveva il sangue così che la carne si inscuriva, si preparavano le «martondele» che sono delle polpette aromatizzate e passate nella farina da polenta; si guarniscono di una foglia di salvia e si avvolgono in un quadrato di reticella di maiale e si cuociono nella graticola o in padella.
Tipica è la «bondiola» di Treviso che ha le caratteristiche del cotechino o musetto, un impasto di carne di maiale grassa e magra, comprese le cotenne macinate finemente e parti della testa, lavorato con un insieme di spezie e insaccato nel budello naturale. Se ne produce un tipo con il lengual, cioè con al centro un pezzo intero di lingua di maiale salmistrata. La bondiola va bollita lentamente e servita come pietanza con contorno di verdure cotte o purea di patate. Da ricordare inoltre la «luganega»; la famiglia di questo particolare insaccato è numerosa. Esiste una «luganega da risi», fatta apposta per essere usata con il risotto, un impasto di pancetta di maiale pestata e profumata con la tipica dosa trevisana, un insieme di pepe, cannella nelle due varietà "regina" e "Goa", pepe garofanato, noce moscata, macis e coriandolo. Esistono luganeghe con aggiunte di altre parti dell'animale nell'impasto e anche con fegatini e ventrigli di pollo: sono le «salsicce de rosto», da cucinare grigliate. La luganega da risi viene usata nella preparazione del risotto, che nel Veneto non è mai compatto, ma quasi una minestra molto asciutta. Nella cottura i rocchi di luganega devono disfarsi e insaporire il riso. Qualche cuoco a metà cottura aggiunge un pezzo di luganega cruda che non ha il tempo di sciogliersi e viene quindi servita intera al centro del piatto.
Ma dove la cucina veneta splende insuperabilmente è nelle ricette che utilizzano gli animali da cortile o volailles: polli, anatre, piccioni, oche, tacchini, faraone. Molte le specialità: a Treviso è d'obbligo gustare «l'oca arrosto con il sedano in insalata»; ad Asiago «il capriolo con la salsa all'uvetta». Ma ovunque si trovano pollastre e "paete" (tacchini) cucinate con vari intingoli come quello, tipico della stagione fredda, a base di melograni, che accompagnano tradizionalmente il tacchino arrosto.
Fra le varie proposte gastronomiche offerte dagli svariati animali da cortile (dall'anatra all'oca, al tacchino, alla faraona ecc.) ricordiamo la ricetta che ci fornisce Giuseppe Maffioli della «terrina di faraona» nel suo libro La cucina trevigiana. «Un polpettone nostrano può sempre diventare "terrina" alla francese, assumendo un aspetto migliore, oppure anche diventare pasticcio in crosta ricoperto da una scatola di pastafrolla, la stessa suggerita per il "pastizzo de macaroni". Si cuoce una faraona come quella per il salmì, ma al vino bianco con i relativi fegatini di faraona e di pollo o vitello o maiale. Si mette da parte la polpa del petto, si disossa e si passa il tutto per due volte al macinacarne, si rimette la carcassa al fuoco con il sugo di cottura della faraona ed un pezzo di testina di vitello o di prosciutto cotto (o arrosto di maiale) che insieme equivalgano il peso della faraona cotta. Si cuoce sino a tenerezza della terrina. Si aggiunge mollica di pane raffermo per inzuppare l'eventuale salsa. Si passa anche questo per due volte al tritacarne. Si impastano insieme i due composti legando con due uova, un cucchiaio di maizena ed un sorso di cognac o di Calvados e cento grammi di formaggio tipo Emmenthal o parmigiano grattugiato. Si aggiunge il formaggio solo se si consumerà la terrina o il pasticcio in crosta entro una settimana, perché altrimenti dopo tale tempo danno al composto un gusto non gradevole. La pancetta del rivestimento ed il burro di cottura dovrebbero bastare; eventualmente si macina col prosciutto cotto un po' di grasso di prosciutto crudo. Si fodera di fettine di lardo sbollentato una terrina con coperchio, si dispone uno strato della farcia di cui sopra, uno strato di fettine di petto, altro strato di farcia, altro di petto, altro di farcia. Si copre la terrina con altre fettine di lardo sbollentato e si passa al forno a bagnomaria coprendo con carta stagnola. Il tempo del forno varierà a seconda della misura della terrina. Dopo un'ora si spegne e si lascia freddare la terrina nel forno stesso. Si serve come antipasto, fredda a fettine spesse un centimetro. Accompagnamento ideale i porcini sott'olio, oppure i cetriolini in salamoia dolci».
Simili alle ricette degli animali da cortile sono quelle della caccia dominata dalla lepre che offre un piatto sontuoso con il «civet di lepre» di cui il Maffioli consiglia la seguente ricetta. «Si taglia la lepre a pezzi e quanti saranno questi pezzi dipende ovviamente dalla grandezza della lepre. Si pongono in una terrina grande con pepe, sale, alloro e timo secchi e polverizzati, si aggiunge una cipolla affettata finemente o anche due e si irrora con cinque cucchiai d'olio e due di grappa o altro distillato (preferibile il gin). Si mescola e si lascia riposare al fresco per tre ore. Si taglia a listarelle centocinquanta grammi di pancetta e si fa risolare in olio e burro; come sia rosolata si aggiungono due cipolle tagliate a fette piuttosto spesse. Come siano bionde si aggiungono due cucchiai di farina oppure (meglio) uno di maizena e si mescola. Si aggiungono i pezzi di lepre e si mescolano bene, coprendoli con vino rosso. Si sala, si pepa e si aggiungono entro una garza tutte le erbe aromatiche possibili con un paio di spicchi d'aglio pestati con un pugno. Cotta che sia la lepre, se ne tolgono i pezzi e si conservano in luogo tiepido. Si cuociono nel fondo di cottura, abbondante, delle cipolline e dei piccoli porcini o degli champignons, saltati al burro, si dispongono in una bella pirofila i pezzi di lepre, le cipolline e i funghetti e si copre con la salsa abbondantissima. Volendo, si sostituiscono le cipolline o i funghetti con caldarroste private della buccia e ammorbidite nel sugo».
Fra i pesci la trota è il più raffinato e viene proposta nelle più svariate preparazioni e anche affumicata. La Marca Trevigiana con i suoi monti ed i fiumi che ne scendono è particolarmente adatta alla vita delle trote ed è in questa provincia che si raccolgono le produzioni più consistenti. Le acque, con la Valle del Piave, con i torrentelli e i fiumi che vi affluiscono, con il Livenza, con il Sile, che dalle valli sorgive di Santa Cristina si snoda limpido nella pianura, incontaminato almeno nella prima parte, con i laghetti di montagna, di un intensissimo azzurro, tutte acque che toccano un paesaggio in buona parte ancora protetto e difeso, sono l'habitat perfetto per un selezionato tipo di trote altamente produttivo sia per la quantità che per la qualità.
Non mancano però le anguille, i gamberi d'acqua dolce, il luccio, lo storione, il pesce gatto ecc. ecc. anche se i pesci nella tradizionale cucina regionale sono considerati non tanto leccornie quanto "mangiare di magro".
E infine la rana che fu cibo dei poveri apprezzato anche dai ricchi. Scrive il Maffioli «È ancora frequente in certe notti il girare dei cacciatori di rane che vanno in giro con un lampioncino per abbagliarle e le rane che cessano il loro canto notturno si lasciano cogliere dalla reticella o si lasciano infilzare dal "schiral". Le loro piacevoli ciarle notturne, il loro gracidare, svaniscono e le notti sono più tristi, lasciando il ruolo di protagonisti ai grilli col loro canto e alla danza d'amore delle lucciole. Le rane vivono sia nelle acque correnti che in quelle stagnanti; se ne stanno di giorno a bagno e la notte salgono sulle prode dei fossi fra le erbette, cibandosi di insetti e di animaletti più piccoli di loro, ivi comprendendo i loro girini e le ranocchiette più giovani. L'epoca della riproduzione va da aprile a maggio e i vari passaggi dall'uovo al girino e alla rana nella sua forma definitiva, durano quattro mesi. Ci sono rane in tutto il mondo e se ne calcolano circa duecento specie, molto simili fra loro. In Italia ne vivono sei specie: la "Rana Esculenta", la "Rana Temporaria", prealpina e alpina, la "Rana Arvalis", frequente nella Venezia Giulia e nell'Istria, la "Rana Latastei" e la "Rana Agilis" in tutta l'Italia, ma specialmente in quella settentrionale, mentre la "Rana Graeca" è più comune nell'Appennino centrale, La "Rana Viridis" o "Rana Esculenta" con la "Rana Agilis" sono forse le più diffuse e le più ricercate, anche perché, a fini gastronomici, si cercano le rane verdognole, picchiettate di puntini neri, con sfumature più chiare sul ventre. Il verde può diventare olivastro, oppure anche grigio bruno e i puntolini essere invece delle striature. Adulta una rana può misurare dai sei agli otto centimetri, talvolta si scoprono anche nel Veneto delle rane gigantesche, lunghe venti centimetri, provenienti dal Nord America, e sono dette "Rane Toro"; come sian giunte sin da noi è fatto misterioso, comunque a chi capitasse di trovarne una, tenga presente che queste "ranone" pare siano commestibili ed abbiano un delicato sapore come di coda di rospo e di pollo, e come la coda di rospo e il pollo possano essere cucinate. Nel Medioevo le rane ebbero cattiva stampa, considerate intere, o con parte delle loro interiora, ingredienti per pozioni magiche e largamente usate dalle streghe. In tempi più illuminati le rane divennero cibo comune e anzi erano consigliate alle donne che nutrendosi di esse pare ne ottenessero un candido e trasparente incarnato. In tempi di astinenze e di digiuni le rane avevano un loro ruolo importante, trasformate in zuppe, in "potacetti", "guassetto", in risotti, in fritture croccanti. Le rane entrano anche in certe preparazioni di magro "alla certosina", talvolta accoppiate con polpa di gamberi di fiume, o con "saletti" d'acque dolci o salmastre. Curiosamente certe ricette nostrane corrispondono a certe ricette classiche della cucina francese, accade così ad esempio che le rane "alla provenzale" corrispondano forse alla più diffusa delle ricette venete. La gente umile, di fronte alle rane, ha scoperto spontaneamente, sotto le latitudini e le longitudini più diverse, gli stessi ingredienti ai quali accompagnare aglio, cipolla, prezzemolo, erbe aromatiche, funghi, farina, pangrattato, vino, olio, burro e uova, trattandole secondo ricette delicate, riservate in genere sia al pesce che al pollo. Vedi ad esempio l'uso di ammannirle in fricassea».
Cibo di magro erano anche le lumache sul cui uso il Maffioli ci offre una pagina sapiente. «Se condita a "puro olio" la lumaca era piatto di magro tradizionale per la vigilia di Natale e di ogni altra "vigilia" in genere e serviva non solo come cibo, ma (la chiocciola) come piccolo lumino che riempito d'olio e dotato di stoppino forniva una fiammella per luminarie composite, come si usava sino a non molto tempo fa per la sagra di Santa Augusta in quel di Serravalle, quella più a nord delle due cittadine che ora compongono Vittorio Veneto. Con i gusci delle lumache si componevano tremolanti scritte luminose di bellissimo effetto, inneggiando ai festeggiati o ai vari Patroni. Ne deriva che le lumache nostrane vengono in genere servite senza il loro guscio e in quantità straordinariamente abbondanti. Le lumache da noi prendono nomi diversi, "schiosi" (s-ciosi), "lymeghe", "bogoni" e "bovoloni" di terra, mentre "caragoi" e "garusoli" sono i parenti di mare. La più semplice salsa destinata a tutti è a base di prezzemolo, aglio, olio, sale e pepe sia per i gasteropodi terrestri serviti senza guscio che per quelli di mare con guscio. Per insaporire le lumache si soleva aggiungere anche un battuto di acciuga che le rendeva più appetitose, oppure un po' di vino bianco, e rapatura di limone. Allo stesso modo si cuocevano anche il polmone di vitello o di agnello con tutti gli annessi e connessi, detti "piscaia". Addirittura si potevano farcire con pezzetti di polmone o di "dureo" di pollo (i ventrigli) a forma di lumaca i vari gusci e si avevano così le "lumeghe scampae" che con appropriate cotture somigliavano molto a quelle veraci. Per rendere più abbondante, più saporito e più colorato il sugo, nel quale intingere la immancabile polenta, si aggiungevano salsa di pomodoro e trito di aglio e persino di cipolla. Le lumache all'aglio, prezzemolo ed olio potevano essere arricchite da uova battute e quindi strapazzate, servite morbidissime. Oltre al prezzemolo le lumache possono essere insaporite con altre erbine aromatiche e in quantitativi massicci, trasformate in una verde e profumata purea avvolgente. Purea che, in proporzione doppia almeno di quella delle lumache stesse, può essere formata anche da spinaci o da spinaci mescolati a bietole, arricchiti da gherigli di noce (o da pinoli) tritati finemente. Pepe bianco, nero o rosso possono dare la richiesta piccantezza, e in genere gli osti abbondavano con il piccante perché le lumache trattate così inducevano al bere. Per le preparazioni non di magro si condivano le lumache con dadolini o trito di pancetta magra, o addirittura con pezzetti di salsiccia, le erbe aromatiche e le aggiunte erano sempre le stesse, solo che si richiedeva l'irroramento quasi d'obbligo di vino bianco e anche rosso, o di una goccia di aceto. In tal caso in alcune zone si aggiunge anche un trito di semi di finocchio ed un pizzico di "dosa" o di sola noce moscata, specie sulle preparazioni con spinaci».
Carni e pesci non escludono un'abbondante messe di erbine e ortaggi: dalle primule (ottima la frittata), al crescione, agli asparagi, al radicchio trevisano. E non mancano i funghi che vengono cucinati nelle più svariate qualità e modalità.
Anche la frutta viene preparata in vario modo, fragole, ciliegie, mele e pesche soprattutto che diventano un vero dessert quando vengono sapientemente cotte con cannella, chiodi di garofano e vino dolce bianco, che servono per diverse conserve (tradizionale la mostarda dal sapore dolce-forte per l'unione delle mele e della senape), marmellate e sciroppi, nonché per svariate crostate. Ricordiamo anche le noci di cui Maffioli scrive «Il noce era un albero assai frequente nel paesaggio veneto, in un certo senso era il più nobile e rispettato, lo si riteneva in qualche modo albero magico, per via dei gherigli delle noci che, specie se fresche, evocavano le involuzioni di un cervello umano. C'era chi riteneva rischioso e infausto il sostare all'ombra di un noce fronzuto e ancor peggio l'addormentarsi sotto quest'ombra, specie degenerata dal chiaro di luna. Le streghe si sarebbero incontrate col diavolo sotto grandi alberi di noci ma isolati nel cuore di boschi lontani, non certo in quelli delle aie, e talvolta sede anche di pollai aerei, raggiungibili da scalette a pioli. Alberi che all'alba diventavano canori per il canto del gallo. Rispettabile il noce per tutto quanto fornisce, la noce in primo luogo, che con il suo olio era un apporto calorifico notevolissimo, assumendo nel nord il ruolo che nel sud aveva l'olivo. Ed ecco allora i detti popolareschi che la noce apprezzavano "Pan e nose disnar de spose" e "Santa Crose (14 settembre) pan e nose", come a dire che l'autunno con le sue frescure poteva essere consolato da un cibo nutriente. Il legno di noce era prestigioso per preparare "talami" e credenzoni di cucina, dalle belle venature, la radica di noce serviva ad impiallicciare mobili in legno meno nobile. Ma il noce massiccio serviva anche per costruire tavoli robustissimi specie quelli di foggia "fratina". L'olio era molto apprezzato come condimento specialmente a crudo, per un suo gradevole sapore, ma era delicato e facilmente irrancidiva. Veniva usato anche in medicina come emolliente e cicatrizzante e per la sua proprietà di essiccare presto lo si usava anche in pittura; le ricette dei colori della grande pittura veneta del '500, e di prima, propongono spesso, fra gli ingredienti, l'olio di noce. Le noci fresche, raccolte, o meglio bocchiate (fatte cadere con una pertica) la notte di San Giovanni, quando non sono ancora mature, servivano e servono ancora per preparare quel "ratafià de nose" che in quel de fasiolo o in altri luoghi dell'Emilia Romagna, vien chiamato nocino. L'edizione veneta è particolarmente speziata, con cannella e garofano fatti macerare per un mese intero alle noci fresche con il loro mallo verde, spartite in quattro spicchi, e immerse in alcol o in grappa ad altissima gradazione. Dopo un mese si filtra il tutto e si pesa l'alcol così aromatizzato aggiungendo poi un eguale peso di zucchero (o di miele) ed altrettanta acqua distillata. Si lascia riposare per un altro mese, poi si filtra il tutto, e ha reputazione di ottimo digestivo. L'olio di noce è ormai scomparso. Se ne può trovare forse in farmacia, ma le noci secche sono facilmente reperibili, e se ne può fare un uso sia tradizionale che di fantasia».
E le castagne che per tanto tempo sono state fondamentale sostentamento delle genti di montagna. «Ci fu un tempo - scrive sempre il Maffioli - e neppure lontanissimo, in cui le castagne erano il pane della gente di mezza montagna. L'autunno era la loro stagione, e si andava sulle colline a "batterle" con le pertiche, e armati di guantoni le si toglieva dai ricci e via via le si poneva in un sacco, oppure si raccoglievano coi ricci ancora chiusi che, portati a casa, tolti dalle castagne e ben asciugati servivano anche a "mantegner le bronze sul fogolaro" (a mantenere la brace nel focolaio) emanando un gradevole profumo amarognolo. I ricci con le castagne venivano raccolti in grandissimi panieri di "strope", quelli stessi che servivano a volte a tener raccolte le covate intorno alla chioccia, e portati a valle coi "bec", delle grandi slitte di legno, a traino umano, più che un trainare era un frenare dati i forti pendii dei viottoli di collina e di mezza montagna. Le castagne erano nel "granaro" una sicura riserva di alimento ed era un cibo festoso specie se lo si accompagnava al vino, magari nuovo, ancora dolce e torbidetto. Tale abbinata "castagne vin novo" era la protagonista di tutte le sagre e le fiere d'autunno, dove apparivano numerosissimi i fornelletti a carbone con le "farzose sbusae" e le castagne tenute in caldo, appena cotte, in un cesto sotto una coperta di lana. Si andava alla Fiera o alla Sagra nella periferia di una città o al centro di un paese: un litro di "vin dolce", ancora con poco grado, adatto anche ai bambini, e un gran "scartozzo" di castagne e poi a casa non si cenava più, si beveva tutt'al più un po' di latte con il caffè di "fondi e de orzo". Si andava quindi a letto per ritrovare nei sogni dell'infanzia e dell'adolescenza la vertigine di certe giostre, della "bissa bova" delle "montagne russe", dei "careghini volanti" e degli ineffabili bellissimi "cavallini", avendo ancora all'orecchio l'eco degli organini e dei carillon. Tempo felice in cui l'orizzonte dei nostri desideri era limitatissimo, e prima di dormire magari si succhiava l'ultimo pezzo di "tiramola" serbato per l'estrema consolazione della giornata. In casa le castagne erano forse più frequentemente bollite e, magari, se l'addetta ai fornelli era paziente, anche prima pelate e poi aromatizzate con semi di finocchio. Passate le castagne restavano le "stracaganasse", le castagne secche da sgranocchiare e anche da cuocere, in molti e gradevoli modi, specie per le carenti dentature dei vecchi. La cottura più frequente era quella nel latte, e a volte anche nel vino. Poi con le castagne secche lessate ed ammorbidite si preparavano anche cremine e manicaretti, in cui assumevano il ruolo di una mandorla dal sapore più popolaresco. Dolci non destinabili a dessert raffinati ma come piatto serale, dopo il consueto e succitato caffelatte "lungo". Le castagne fresche si servivano persino in zuppa, come "crema", e ho vivissima la memoria di una zuppa assaggiata negli anni verdi, e composta di castagne e di funghi».
Per quanto riguarda i dolci, a parte quelli di "importazione" perché entrati nei circuiti dell'industria alimentare, ricordiamo innanzi tutto quelli tradizionali delle sagre, dolci secchi come i «bianchetti», gli «ossi da morto» (così chiamati per la loro particolare forma), i «zaletti», le «lingue di gatto» ecc. ecc. Si passa poi ai più elaborati come la «torta fregolotta» (oramai diffusa in tutta l'Italia settentrionale), le focacce, la «zuppa inglese al caffè», la «bavarese» e i vari sorbetti.
La storia della cucina appartiene alla storia della cultura dell'uomo, intrecciandosi con quella dell'arte e della poesia, del teatro, della musica, delle religioni. Spesso addirittura influenzandola.
Tra le cucine regionali italiane, quella veneta si contraddistingue per completezza di ricettario, in virtù di una morfologia territoriale estremamente varia: mare, montagna, collina, pianura, laghi, fiumi e torrenti, ma anche valli e lagune.
Tanta diversità di ambienti regala una pluralità di prodotti tipici a denominazione d'origine riconosciuta (Marchio di qualità approvato dall’Unione Europea) in ogni campo alimentare: da ortaggi e frutta ( il radicchio rosso di Treviso e quello variegato di Castelfranco, l'asparago di Cimadolmo) a formaggi (l'Asiago., il Montasio e il Grana padano), da insaccati (il prosciutto Veneto e la sopressa Vicentina ) al riso Vialone Nano veronese, fino agli olii extravergine di oliva Veneto e del Garda. Tutti prodotti sottoposti a rigorosi controlli.
Questo ha consentito la natura. Il resto, ed il più, lo hanno fatto l'intelligenza e la fatica delle donne e degli uomini che, nel gioco secolare del prova e riprova, hanno manipolato tante risorse fino all'eccellenza. La storia ha dato una mano: il risultato è una tavola imbandita di piatti, dove si mescolano raffinatezze patrizie e sapori contadini, ispirazioni terragne e profumi marinari, gusti indigeni e aromi forestieri.
Piatti che si accompagnano alla ricca e diversificata gamma dei vini veneti, capace di soddisfare i diversi gusti dei consumatori.
Nella dolce terra veneta il vino è di casa.
Un vigneto di quasi 80 mila ettari , che originano più di 8 milioni e mezzo di ettolitri di vino, di cui oltre 2 milioni prodotti nelle aree vocate a DOC e DOCG: questi i numeri di una regione vitivinicola ai primi posti in Europa per quantità e per qualità.
Questo è il Veneto: un ricco e diversificato patrimonio che non è solo alimentare, ma racchiude in sé anche tutti i valori e i saperi di una regione dalla grande storia.
La polenta è il cuore della casa veneta, il simbolo popolare della sua cucina; nel Veneto, si sono sperimentate tutte le variazioni gastronomiche possibili della polenta.
A Venezia esistevano dolci rustici, molto comuni, fatti con farina gialla prima della scoperta dell'America e a metà del XVI secolo, in Friuli, si fa la polenta con il "grano saraceno".
Queste due realtà ci inducono a pensare che il famoso mais (mahiz, lo chiama Colombo, imparando il termine degli indigeni dell'isola Hispaniola) sia arrivato nel Veneto attraverso i traffici veneziani con l'Oriente, in tempi remoti.
Le prime coltivazioni di mais si ebbero trent'anni dopo la scoperta dell'America, in Andalusia, per opera di agricoltori di origine araba che lo usavano come mangime per gli animali. Dal Golfo di Biscaglia, il mais si diffonde nel XVII secolo in tutta Europa, anche per la spinta che viene dai coloni americani, e si espande lungo una fascia precisa, attraverso la Spagna, la Francia, l'Italia, i Paesi danubiani, l'Ucraina, fino al Caucaso. Più a nord, il clima era troppo freddo, più a sud troppo secco. La preparazione è ovunque la stessa: si fa cuocere la farina gialla in acqua o brodo, vi si aggiunge, alla fine, burro, latte, formaggio, sughi e carne.
Le attuali ricette della polenta impastizada, della polenta infasolà, della polenta onta, ecc., si rifanno a questo antico uso, derivato dalla maniera di preparare la puls romana.
La parola "polenta", infatti, conserva la sua origine latina, puls, plurale pultes. Allora, la polenta era fatta con il farro, un cereale più grosso e duro del comune frumento, e non offriva la consistenza della polenta di farina gialla. Si condiva con latte, formaggio, carne di agnello, oppure con salsa acida e maiale.
La puls era conosciuta in tutta l'area mediterranea e Apicio ci parla della puls punica, fatta con farina, formaggio fresco, miele e uova. Lo stesso autore ci riporta la preparazione delle pultes julianae, le polente friulane e venete con la spelta o il panico, con l'aggiunta di olio o latte, formaggio e sughi di carne.
Nel De honestate voluptate et valetudine del Platina, alla fine del XV secolo, ritroviamo la polenta di farro. La torta si otteneva mettendo in padella, in teglia, a strati, polenta e condimenti, con una "spolverata" di zucchero e acqua di rose.
La polenta di granoturco risolve subito i molti problemi alimentari delle popolazioni povere, fino a quando, nella metà del XVIII secolo, non apparve la pellagra, causata, si disse, dal continuo consumo di polenta. "Ci sono voluti decenni, si è dovuto arrivare a questo secolo prima di capire che la pellagra era conseguenza di una mancanza di vitamine" (Carnacina - Buonassisi) e si riconobbe l'antica saggezza dei Maya e degli Incas, che avevano fatto del mais la base della loro alimentazione ma vi univano quanto vi mancava.
La cucina del Veneto
Oltre che per l'arte e per la cultura Venezia è la città simbolo del Veneto anche per quanto riguarda la gastronomia. La cucina veneziana ha origini rustiche, ma i traffici con il medio e l'estremo Oriente ai tempi dello splendore repubblicano ne hanno arricchito e variegato a dismisura il ricettario. I galeoni della Serenissima di ritorno da lunghi viaggi portavano nella città lagunare il sale, il pepe, lo zenzero e persino lo zafferano dalla lontana Cina: spezie a quel tempo sconosciute, capaci di stimolare la fantasia dei cuochi locali che dettero vita a un' arte culinaria unica nel suo genere. E ancora oggi la cucina veneziana sembra rinnovare la freschezza di quelle fragranze, con piatti dalla preparazione elaborata e dal gusto raffinato che richiamano spesso i sapori di terre lontane. La gastronomia veneta però non è solo veneziana. Le specialità abbondano anche nelle province. Treviso, Padova, Vicenza e Verona possono vantare ricette diventate famose in tutta Italia per bontà ed originalità.
Mangiare veneziano
Mangiare veneziano significa innanzitutto gustare il pesce dell'alto adriatico. Si tratta di un pescato di grande qualità e di tipologia quasi infinita che, grazie alla fantasia delle ricette, si presta alle variazioni gastronomiche più ardite. Granchi, polipetti, cappesante, moeche e seppie vengono serviti con soluzioni raffinate che riflettono la particolare sensibilità e signorilità dei veneziani. La granseola ad esempio è un grosso granchio che diventa un prelibato antipasto sulle tavole della Serenissima: viene gettato nell'acqua bollente e, a fine cottura, condito con olio d'oliva, sale, pepe ed un pizzico di limone. Apprezzatissimo anche il pasticcio di pesce, composto di lasagne con pesce e crostacei. La salsa tipica per accompagnare i piatti di pesce è fatta di prezzemolo ed aglio tritati in olio d'oliva e profumati con pepe macinato. Tra i secondi piatti le seppie in tegame, le anguille in umido e tutto il pescato dell'Adriatico; sardine, rombi, moscardini, cefali. La frittura veneziana, condotta con tecniche esperte, è famosa a livello internazionale. Il fritto misto classico è fatto con gamberi, calamari e piccole sogliole. Piatto particolarissimo della gastronomia veneziana è il baccalà mantecato, dove il baccalà, che in realtà è stoccafisso, viene prima scottato in acqua bollente, spellato, diliscato e quindi sminuzzato in piccole scaglie alle quali va aggiunto olio d'oliva. Sbattuto poi con un mestolo di legno, questo impasto monterà a poco a poco fino a diventare una morbida mousse dal gusto sorprendente. Può essere servito anche steso su fette di polenta abbrustolite o, nella versione vicentina, su una polenta tradizionale, morbida e calda. Ma non c'è solo il pesce sulle tavole dei veneziani. Tra i piatti che hanno fatto la storia della loro gastronomia troviamo il fegato alla veneziana, probabilmente la più nota delle specialità della Serenissima che oggi è possibile gustare in quasi tutte le parti del mondo. Si tratta in pratica di fegato affettato e cotto in un soffritto di olio, cipolle, burro e prezzemolo: un piatto che è quasi obbligatorio assaggiare durante una visita a Venezia. Altro piatto famoso è il risi e bisi, il riso con i piselli, che apriva il pranzo del doge di Venezia nel giorno della festa di S.Marco.
La cucina veneta
La cucina veneta in generale si basa sul riso e sulla polenta di granturco. Il riso, coltivato prevalentemente in provincia di Verona, viene preparato in decine di modi diversi e ogni provincia tenta di dare un tocco di originalità alle proprie ricette per distinguersi dalle altre città. Esempio classico è proprio quello del riso con i piselli, piatto la cui origine è ancora motivo di contendere tra le province venete, Venezia e Padova in particolare. Di risi e bisi ne esistono almeno una decina di versioni, da quella in brodo con i baccelli a quella insaporita dall'oca. Sul riso in ogni modo i veneti hanno tutto il diritto di sbizzarrirsi in invenzioni gastronomiche. Sono stati loro a trasformarlo da cibo per nobili a piatto popolare. Si dice che in Veneto esistano ben quaranta portate a base di riso, che viene combinato con gli ingredienti più disparati: carne, pesce e soprattutto verdure come zucchine, cavoli, asparagi, piselli e cavolfiori, prodotti da una campagna assai generosa. Tra le varie ricette ricordiamo il risotto alla padovana, con fegato di vitello e di pollo; il risotto con l'anatra, l'anguilla o con le tinche pescate nel lago di Garda e il risotto alla veronese, con funghi e prosciutto tritato La polenta è considerata dai veneti come un vero e proprio pane. Prima che arrivasse il mais veniva già preparata con una base di grano saraceno unito a miglio e fave. Poi, verso la metà del cinquecento, per migliorarla i veneziani importarono il 'granturco', chiamato in questo modo dal popolo che lo considerava un cereale straniero, quindi 'turco'. Piatto famosissimo che unisce l'amore dei veneti verso la polenta ed il loro gusto per le carni è la polenta ed osei, la polenta accompagnata da uccellini rosolati a fuoco lento, insaporiti con lardo, salvia ed olio d'oliva.
I vini
Il Veneto può vantare una grande produzione di vini, anche notevolmente differenti tra di loro, data la grande estensione della regione e la conseguente varietà di regimi climatici ed ambientali. Le zone di produzione più rinomate sono la Valpolicella ed i colli di Treviso. Nella marca trevigiana viene prodotto il famoso Prosecco dorato, leggermente frizzante e fruttato. Il vino più celebre è però quello di Conegliano Valdobbiadene, spumante particolarmente apprezzato negli ultimi anni. In quest'area si produce anche il Verdiso, che prende il nome dalla sua particolare sfumatura verdastra, ed un Tocai asciutto e profumato. In Valpolicella, con l'aiuto di un clima simile al mediterraneo per l'influsso mitigatore del lago di Garda, nascono vini veramente indimenticabili. Ricordiamo il Soave, il Bardolino, il Verduzzo ed il Valpolicella. Da ricordare anche il Recioto, vino dolce prodotto utilizzando solo gli acini più esterni del grappolo (appunto le 'orecchie' del grappolo) che risultano più dolci in quanto maggiormente esposti al sole.
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