INTRODUZIONE CUCINA CAMPANA
La cucina della Campania è caratterizzata dal rispetto delle tradizioni che affondano le loro radici nella natura incontaminata della Magna Grecia e del Sannio; è una cucina che mantiene distinti quelli che sono i sapori naturali e ne esalta la freschezza e la genuinità .... uno stile questo che ritorna continuamente dalla pizza ai purpetielli affogati, dal leggendario ragù ai dolci ed ai liquori.
La cucina napoletana che per influenze storiche rimanda a quella degli antichi greci, degli spagnoli e dei francesi, ha influenzato un po' tutta la cucina campana che comunque presenta caratteristiche variegature all'interno del suo stesso territorio.
Il vero successo della cucina napoletana è la pizza.
La pizza è la creazione più celebre di tutta la cucina napoletana ed è un'invenzione molto antica. In passato, un primo tipo di pizza si faceva in epoca romana, ed era una specie di focaccia di grano. Ma la pizza per antonomasia, fragante, gustosa e croccante diventò presto popolarissima presso il popolino, ma anche presso baroni e principi: dominava i ricevimenti dei Borboni, che ne erano ghiotti, e Ferdinando IV arrivò a farla cuocere nei forni di Capodimonte, gli stessi dai quali uscivano le preziose ceramiche artistiche.
Si narra che anche i sovrani piemontesi si lasciarono conquistare da questo umile cibo meridionale: fu per Margherita di Savoia che nel 1889 il pizzaiolo Raffaele Esposito creò la patriottica pizza "tricolore" in cui bianco, rosso e verde erano costituiti da mozzarella, pomodoro e basilico e che da allora si chiama appunto "pizza Margherita".
CUCINA CAMPANA
La cucina Campana è, come tutte le cucine regionali, vincolata ai prodotti e al clima del luogo.
Simbolo di questa cucina è senza dubbio la pizza margherita, preparata con pomodoro, mozzarella e basilico in onore del tricolore e della regina Margherita in visita a Napoli.
Napoli inoltre rivaleggia con la Cina per l'invenzione degli spaghetti. La pasta in origine veniva cotta lungo la strada in dei pentoloni sempre pieni d'acqua bollente e cosparsi con abbondante parmigiano, consumati con le mani.
Altri prodotti tipici sono la mozzarella di bufala, i pomodorini del vesuvio, i limoni di Amalfi, i piatti a base di pesce fresco, la minestra maritata (minestra composta da una selezione di ortaggi con aggiunta di salsicce, muso e piede (o per e o muss) di maiale carne di manzo e gallina; la caprese (pomodori e mozzarella o dolce composto con cioccolato e mandorle a seconda che venga richiesta come secondo o dolce) e il babà, un soffice dolce molto cresciuto cosparso da una bagna di rum acqua e zucchero, il limoncello, e una serie di molte altre ricette. quando in origine si cuocevano gli spaghetti lungo la strada nei pentoloni!! i campani non conoscevano il parmigiano bensi' il pecorino Romano!!pasta e piselli,pasta e fagioli,pasta e zucca,pasta e lenticchie,pasta e patate,pasta col soffritto,zuppa e carna cotta,maccarun o' furn,paccheri con ragu'(napoletano) e ricotta,pasta a'genuesa,sartu' e riso,maccarune a' lardiatae chi piu' ne ha piu' ne metta etc etc....antonio da napoli.ps gnocchi alla sorrentina,spaghetti alle vongole veraci e pasta calamarata col cuoccio(gallinella).
CUCINA TIPICA CAMPANA PRODOTTI TIPICI DELLA CAMPANIA
La cucina della penisola Sorrentina
Sorrento, Vico Equense, Positano, Amalfi si affacciano sulla parte meridionale del Golfo di Napoli immerse in una lussureggiante vegetazione caratterizzata dal verde degli agrumeti e da quello argenteo degli oliveti. E' quasi come se la natura avesse donato a queste zone tutto il meglio: meravigliose colline si sovrappongono ricche di vegetazione a coste frastagliate.
Sorrento è una piccola città di origini greche (surrentum o la città delle sirene) mentre Amalfi è stato uno dei più potenti centri economici del Mediterraneo.
L'abilità sul mare degli Amalfitani pose la città all'avanguardia fra le repubbliche marinare nei commerci con i paesi dell'Oriente: prima delle altre, Amalfi ebbe un suo codice marittimo, coniò moneta e divenne celebre per i suoi arsenali dove si costruivano vascelli anche per altri paesi.
Ed è proprio in questa zona che domina il pesce e gli agrumi... tipici sono i limoni di sorrento.. grandi e succosi.
La cucina del Casertano
Caserta sorge al limite nord orientale della pianura campana ed è ricca di storia. La provincia si estende dal massiccio del Matese fino alla zona costiera, che si affaccia sul golfo di Gaeta ed e' composta di terreni alluvionali e di detriti vulcanici.
Le origini dell'attuale Caserta sono tutt'oggi incerte: per alcuni fu fondata dai Sanniti, per altri, invece, dai Romani. Sembra, però, che la tesi più diffusa dica che furono i Longobardi di Capua ad insediarla nel XIII.
La città è ricca di monumenti e sicuramente quello più famoso è il Palazzo Reale costruito dal 1752 al 1774 che accoglie il Museo Vanvitelliano e gli appartamenti reali.
La tradizione gastronomica del Casertano riporta piatti semplici e popolari, come le zite ripiene, l'anguilla arrostita, la pastiera di riso o di tagliolini. Dai fiorenti allevamenti di questo territorio deriva la possibilità di preparare formaggi di latte bovino tra i quali primeggiano le mozzarelle che sono sempre di bufala. Si tratta di un formaggio a pasta filante ottenuto da latte intero, confezionato immerso in panna o in liquido di governo per garantire una maggiore freschezza.
Le mozzarelle di Caserta sono fra le più apprezzate e famose di tutto il meridione.
Oltre ai latticini, base di questa cucina sono i legumi d'ogni specie, da mangiare da soli appena estratti dal "pignatiello" o con la pasta a completamento di una nutriente minestra. I broccoli, passati in padella con congrua scorta di aglio e peperoncino, diventano i mitici «friarelli».
La cucina dell'Irpinia
Il paesaggio dell'Irpinia comprende numerose città ricche di storia e tradizioni culinarie. L'antica città degli Irpini, Abellinum, fu colonia romana nel I sec. a.C., e venne conquistata dai duchi longobardi di Benevento nel sec. VIII.
La Città ha un aspetto moderno ed è situata nella valle del Sabato, in una conca verdeggiante circondata da una bella cerchia di montagne e dominata a NORD dal Montevergine.
La gastronomia di questa terra è semplice, molto legata ai suoi prodotti. La carne, viene privilegiata la cottura alla brace, soprattutto di agnello e di suino.
Dal maiale vengono prodotti salumi e insaccati che si basano ancora su tradizionali lavorazioni artigiane come avviene ad esempio per la famosa soppressata affumicata: l'impasto normalmente formato da due parti di carne magra dal prosciutto e dal filetto dell'animale e una di grasso; ma la caratteristica decisiva è la pressatura, lo schiacciamento sotto un peso, generalmente delle grosse pietre, che avviene prima della stagionatura e della successiva affumicatura che conferisce a questo prodotto un sapore particolarmente apprezzato.
I legumi (fagioli, ceci, fave, piselli) sono presenti sia nei condimenti dei primi piatti (minestre e pastasciutte), sia come accompagnamento alla carne, sia, nelle zone più povere, come piatto unico: in questo caso vengono cucinati con pancetta e altre parti del maiale che viene sfruttato integralmente.
La cucina dell'irpina ha un gusto paesano ed è basata su sapori semplici e collaudati.
Essa è anche influenzata dalla cucina pugliese per le grosse vicinanze territoriali.
La zona è nota per la produzione dell'agnello che, cotto al forno con i piselli, è un piatto semplice, ma di sicuro successo, come del resto il coniglio alla cacciatora domestico o selvatico del quale abbondano i monti circostanti.
La cucina dei campi flegrei
Colori, mistero, storia e vicende geologiche caratterizzano l'area de i Campi Flegrei.
Proprio qui comincia la storia di Napoli con l'arrivo dei Greci e degli Etruschi, e con la presenza dei Romani, nelle rispettive epoche.
Il territorio è caratterizzato da innumerevoli crateri che ne hanno disegnato le forme, sovrapponendosi gli uni agli altri.
Laghi, mari, golfi, baie, insenature, punte, promontori, isole, scogli, colline, pinete, solfatare e terme rendono questa terra tormentata e affascinante unica al mondo.
Pozzuoli, Baia, Bacoli, Quarto.. sono tutti territori che fanno parte dei campi flegrei e che associano ad un'antichissima storia, una forte tradizione culinaria.
La gastronomia del Cilento
Nel Cilento esiste una tradizione alimentare basata su cibi, fatti di prodotti che nascono in questi luoghi: l'olio di oliva, il vino, il pane e la pasta, i legumi secchi, la frutta (specie degli agrumi) e di tutta la vastissima gamma dei saporitissimi ortaggi, fra i quali primeggia il pomodoro.
Tutti questi ingredienti sono sapientemente combinati fra loro con l'aggiunta di piccole quantità di formaggi, latte, uova, carne, pesce.
LA MOZZARELLA DI BUFALA
La mozzarella è un formaggio fresco a pasta filata ottenuto con latte di bufala,con latte misto di bufala e vacca oppure soltanto di vacca. Per realizzare questo formaggio si prepara una cagliata che, spezzettata, privata del siero e fatta maturare per alcune ore, viene immersa in acqua a 80-90 °C e manipolata in modo da ottenere una specie di cordone filamentoso da cui si ricavano le varie forme e pezzature. Oggi la mozzarella ha ottenuto la registrazione della Denominazione d'Origine Protetta (DOP).
Pomodoro San Marzano
Il pomodoro è originario delle Americhe e appartiene alla famiglia delle salanacee. A Napoli arrivò dalla Spagna nel XVI secolo. I nizialmente considerato pianta medicinale, entrò nelle cucine partenopee solo alla fine del '700'. Il pomodoro San Marzano è conosciuto e apprezzato in tutto il mondo e ha alcune caratteristiche particolari che lo rendono unico: sapore tipicamente agrodolce, forma allungata della bacca con depressioni longitudinali parallele, colore rosso vivo, scarsa presenza di semi e fibre placentari; la buccia, a completa maturazione, è di colore rosso vivo e si stacca con grande facilità. . E' un prodotto tipicamente campano che costituisce un importante riferimento per l'industria conserviera e per la dieta mediterranea. In un recente passato il S. Marzano venne definito “oro rosso” per il valore economico che era riuscito ad assumere per gli agricoltori dell'agro sarnese-nocerino.
I PRODOTTI TIPICI CAMPANI
Vini Campani:
Aglianico del Taburno DOC 2000 Ocone
Aglianico del Taburno Vigna Pezza la Corte 1997
Aglianico del Taburno Vigna Pezza la Corte 1997
Diomede Aglianico DOC 1997 Ocone
Falanghina 2001 Feudi S. Gregorio
Falanghina DOC Taburno 2002 Ocone
Falanghina Vigna del Monaco Ocone
Greco DOC Taburno 2002 Ocone
Greco Taburno 2002 Ocone
Mozzarella di Bufala
Mozzarella di Bufala Caseificio Serra
Mozzarella di Bufala DOP Caseificio Serra
Mozzarella di bufala campana DOP Serra
Caciocavallo Podolico
Provolone del Monaco di Vico Equense
Olio della Campania
Olio Extravergine d'Oliva Terre dei Monaci
Pasta
Calamaretti di Nola
Paccheri Rigati di Nola
Penne Rigate di Nola
Bucatini di Nola
Cordelle di Nola
Fiori di Nola
Linguine di Nola
Mezze candele di Nola
Mezze penne di Nola
Paccheri di Nola
Spaghettoni di Nola
Tortiglioni di Nola
Fusilli di Nola
Pomodorini del Piennolo del Vesuvio biologici in salsa
Dolci Napoletani
Pastiera Napoletana di Grano Di Ciaccio
Confettura extra di Albicocche del Vesuvio
Mandorle e Nocciole in Miele Apemax
Mandorle in Miele Apemax
Nocciole in Miele Apemax
Miele Apemax di Massimo
Melata di Bosco Apemax
Miele Millefiori Apemax
Miele di Arancio Apemax
Miele di Castagno Apemax
Torroni Irpini
Torrone del Torronificio del Casale
Torrone Mandorlato Ricoperto Tenero
Torrone del Casale alle mandorle
Torronelli del Casale ricoperti al cioccolato
STORIA DELLA CUCINA CAMPANA
Le complesse vicende storiche di questa regione giustificano da un lato le influenze francesi e spagnole delle preparazioni dei piatti che si consumavano alle mense dei ricchi, molto appariscenti, molto scenografici e spesso sostanziosi; ma giustificano altresì la cucina povera, quella riservata al popolo in cui primeggiano ortaggi e latticini, in cui è quasi assente la carne e il pesce è riservato alle feste.
Una regione nella quale i poveri erano veramente poveri e i ricchi conducevano una vita godereccia nei palazzi e castelli dei nobili oltre che, naturalmente, alla corte del Regno, ha avuto nei secoli una cucina divisa per censo senza possibilità di reciproche influenze affidata alla fantasia della povera gente la prima, ai grandi cuochi la seconda.
Unico carattere in comune è la molteplicità dei piatti che in questa terra sono stati elaborati attraverso i secoli rendendo la cucina della Regione Campania particolarmente ricca di piatti frutto di inventiva per quella povera e di grande abbondanza per quella dei ricchi.
Quest'ultima trova spazio nei testi storici scritti in Italia soprattutto nel 1400 e nel Rinascimento. Così Cristoforo di Messisbugo che pur essendo nato probabilmente nelle Fiandre nei primi decenni del XVI secolo è stato attivo come scalco presso la corte degli Estensi; egli ebbe grande fama tanto da meritare di essere creato Conte Palatino a opera di Carlo V (gennaio 1533).
Nella parte della sua Opera dedicata alle ricette troviamo cibi di varia derivazione fra i quali non mancano quelli della cucina napoletana, primo fra tutti i maccheroni. Infatti egli scrive: «A fare dieci piatti di maccheroni alla napoletana». «Piglia libbre otto di fiore di farina, e la mollena (= mollica) d'un pane grosso boffetto, mogliato (= messo a molle, a bagno) in acqua rosata, e uova fresche quattro, e once quattro di zuccaio; e bene impasta ogni cosa insieme, e fa bene la tua pasta, menandola per un pezzo. Poi ne farai spoglie più tosto grossette che sottile, e le tagliarai in liste strette e longhette; e farai che stiano alquanto fatti. Poi li cuocerai in brodo grasso bogliente, e li imbandirai nei piatti o sopra capponi o anadre o altro, con zuccaro e cannella dentro e di sopra. E per li giorni da pesce, li cuocerai nell'acqua senza butiro, o con butiro fresco, se vorrai».
Per quanto riguarda le notizie storiche sui vini di questa zona è preziosa la lettera di Sante Lancerio (vissuto nel XVI secolo) scritta al cardinale Guido Ascanio Sforza intorno alla natura e qualità dei vini.
Fra quelli citati molti provengono dal Napoletano. Così il «Greco di Somma», il «Greco di Posilico (= Posillipo)», il «Greco d'Ischia», il «Greco di Torre» ecc. Interessante quanto scrive del «Vino Sucano»: «Viene a Roma per schiena di muli e per some. Tali vini sono per la maggior parte rossi, et è perfettissimo vino sì per il verno quanto per la state. Sucano è un castelletto distante da Orvieto due miglia, e dopo il vino Monterano non ha pari bevanda per vino rosso. Tali vini sono odoriferi, bellissimi e polputi (= gagliardi, di molta sostanza) più che il Monteranno, ma non hanno tanto odore. A voler conoscere la loro perfezione, vuole essere odorifero, bello e non agrestino. Ci sono delli bianchi molto perfetti per il verno, con una vena di dolce, ma vogliono essere mordenti, non grassi né matrosi. Volendo il rosso per la state, si vuole pigliare crudo, e sia di vigna vecchia, ché la vigna vecchia ha questa proprietà, che se fa il vino amabile lo mantiene e se lo fa asciutto lo mantiene; la giovane fa il contrario. Di questo vino S. S. beveva volentieri, massime quando era in Orvieto. Il capitano Jeronimo Benincasa (= personaggio storico non identificabile; si tratta, probabilmente, di un funzionario di Curia, all'epoca di Paolo III) faceva buona provvisione e lo faceva portare a Roma et in viaggio».
A questi seguono «Il Mangiaguerra» così chiamato perché fortissimo, «Il vino di Salerno», il «Vino Santo di San Severino» e il «Vino Aglianico». Una ricca produzione che testimonia la fertilità di questa terra e la capacità vinicola dei suoi abitanti.
Il Lancerio nel descrivere questi vini ci fornisce anche notizie sulla realtà del Regno di Napoli: così parlando del vino di Fistigno scrive: «È rosso e viene dal Regno di Napoli, da un luogo sopra la montagna di Somma. Tale vino si domanda Fistignano rispetto alla sorte o viticcio dell'uva. In questo luogo sono vigne erborate et uva assai rossa e dolce, e fa il vino maturo e dolce e carico di colore. Ci sono anco degli asciutti e sono ottimi vini. A voler conoscere la loro perfezione vuole essere scarico di colore et abbia polso (= forza), cioè sia gagliardo, né molle (= debole, acquoso) né matroso, e sopra tutto abbia odore. Di tali vini S. S. beveva volentieri e gli faceva onore. Il meglio vino che si faccia è della possessione di Mons. Domenico Terracina, ma raro viene a Roma, perché i Viceré lo vogliono per loro, e certo è buona bevanda».
Negli stessi anni visse Bartolomeo Scappi che pure nella sua Opera si riferisce alla cucina napoletana ad esempio quando fornisce la ricetta «Per fare torta reale di piccioni, da' Napoletani detta pizza di bocca di dama» o «Per fare torta con diverse materie, da' napoletani detta pizza» che però non ha nulla a che vedere con la famosa pizza che nel secolo XX ha avuto tanta fortuna in tutto il mondo. Egli infatti scrive: «Abbisi once sei d'amandole ambrosine monde e quattr'once di pignoli ammogliati mondi e tre once di dattoli freschi privi dell'anime e tre once di fichi freschi, tre once di zibibbo senz'anime, et ogni cosa pestisi nel mortaro, sbruffandole alle volte d'acqua rosa, di modo che venga come pasta; giungasi con esse materie otto rossi d'ova fresche crude, once sei di zuccaio, un'oncia di cannella pista, un'oncia e mezza di mostaccioli napoletani muschiati fatti in polvere, quattro once d'acqua rosa; e fatta che sarà d'ogni cosa in una composizione, abbisi la tortiera onta con uno sfoglio di pasta reale et il tortiglione sfogliato incirca non troppo grosso, e mettasi la composizione in la tortiera, mescolata con quattro once di butiro, facendo che non sia più alta d'un dito, e senza essere coperta facciasi cuocere al forno e servasi calda e fredda a beneplacito. In essa pizza si può mettere d'ogni sorta condite».
Sullo scorcio del Seicento Lo scalco alla moderna del marchigiano Antonio Latini sembra segnare la fine dell'egemonia esercitata dalla letteratura gastronomica italiana e rappresentare, per una oscura consapevolezza dell'Autore, la «summa» di tutta la letteratura precedente, dagli esordi della gastronomia umanistica ai trattati del Messisbugo, del Panunto, dello Scappi, del Cervio, dello Stefani, per non ricordare che i maggiori dell'età rinascimentale. Lo dice la grossa mole del trattato e meglio lo attesta il sommario degli argomenti, nel quale si trovano annoverati «l'arte di ben disporre i conviti», «le regole più scelte di scalcherai», «il modo facile e nobile di trinciare», di fare arrosti, bolliti, stufati, minestre, zuppe, morselletti, brodi, fritti, pasticci, crostate, pizze, salse, sapori, aceti, conserve, «il modo di fare trionfi», «di ben imbandire le tavole», «di conoscere i gradi qualitativi» dei singoli alimenti insieme col nome dei loro «inventori», nonché un catalogo di frutti e di vini, a cui segue, nella seconda parte, un trattato per confezionare i piatti di magro.
Anch'egli fa menzione alla cucina napoletana proponendo ad esempio la minestra «di foglia alla napoletana» per la quale si dilunga in molte precisazioni. «Benché io n'abbia fatto menzione nelli piatti compositi, m'è parso bene metterla nel numero delle minestre, per esser questa squisita e molto in uso. Si piglia una gallina e si mette a bollire insieme con la vacca, quando questa sarà più che mezza cotta, accioché la gallina non si disfaccia; e vi si mettono dentro lingue salate di porco, ma bollite, carne salata che prima sia stata a mollo, una soppressata (= sorta di salume posto in pressione tra due tavole), un pezzo di filetto, un pezzo di ventresca di porco, ossa mastre, annoglio (= o anduglia, dal francese andouille, sorta di salsiccia ripiena di carne a pezzetti e di intestini tagliuzzati), un pezzo di lardo battuto con il suo sale, a proporzione; e quando saranno le sopradette robbe cotte, metterai il brodo che raccoglierai dentro un tegame, tagliando le sopradette robbe in fette e la gallina ancora o cappone; tenendo ogni cosa da parte, metterai nel brodo un terzo della sudetta robba tagliata, e poi v'aggiungerai torzi ripieni, cocuzze (= zucche) e cipolle parimenti ripiene di vitella battuta con rossi d'ova, un poco di mollica di pane ammollato nel brodo, passarina, pignoli, a suo tempo, acini d'agresta e il pastume (= impasto) che avrai fatto servirà per riempire tutte le sopradette robbe, con le solite spezierie ed erbette odorifere. Vi potrai anche aggiungere la lattuga o la scarola ripiena; l'altra carne che sarà restata, l'anderai accomodando con ordine dentro il tegame o in un altro vaso, framezzata con fettarelle di fianchetto ripieno, con zizza (= mammella) prima bollita, salsiccia spaccata per metà; levatele la sua pelle, fette sottili di cascio parmiggiano grattato, fonghi di Genova, prima dissalati e bolliti con ossa mastre, avvertendo che sia il brodo buono, che sarà una minestra di buon gusto e si potrà fare in qualsivoglia conversazione (= adunanza conviviale) che sempre riuscirà gustosa quando si osserveranno le sudette regole; e molte volte io ho fatto portare queste minestre in tavola con tutto il tegame che riescono di vista e miglior sapore e si possono spartire nei piatti».
Egli ci insegna inoltre «Per fare mezzo barile d'acqua di passi (= chicchi passiti), così chiamata in Napoli». «Piglierai sedici libre di passi d'uva doraca (= duracina), li spaccherai con diligenza; dopo che gli avrai spaccati li metterai dentro un mezzo barile, tenendo preparata una caldaia d'acqua al fuoco e quando bolle bene la metterai dentro al mezzo barile, otturandolo bene e rotolandolo più volte di sotto e di sopra accioché li passi si mescolino; dapoi lo lascerai stare vicino al fuoco per un giorno et una notte; dapoi lo metterai alla tramontana, in luogo dove non dia il sole e dopo otto o dieci giorni, secondo il freddo, si puole incominciare a bere perché avrà pigliato il razzente (= il sapore piccante). Quest'acqua è pettorale (= giova alle affezioni di petto) e cordiale; si può bere liberamente senza dubbio di nocumento; si deve fare l'inverno per li tempi freddi».
Con il XVII secolo la cucina francese esercita dunque il suo predominio su quella italiana il che si desume anche dal lessico gastronomico dei grandi cuochi come il napoletano Vincenzo Corrado (1734-1836) che, pur rivelando una grande fedeltà alla pratica tradizionale della cucina italiana, non disdegna di usare nella sua opera Il cuoco galante termini francesi talvolta italianizzandoli a costo di comprometterne la comprensione.
In quest'opera troviamo una grande quantità di ricette napoletane come quelle dei timballi, degli ortaggi, dei pesci e della caccia con varie proposte come ad esempio per cucinare i tordi: «La carne di questi uccelli è d'ottimo sapore; anzi la stimano tra gli volatili la migliore. La loro stagione principia nel mese di ottobre e dura infino a gennaio.
Tordi arrostiti. La vivanda più gustosa che si può fare delli tordi sarà farli arrostiti in vari modi; cioè involti in rete di porco o bardati con fette di lardo o pur con presciutto intorno e foglie d'alloro o in fine addobbati con olio e sugo di limone e poi serviti con sapor di capparini. Si fanno ancor arrostiti alla parmigiana, ingrassati bene di butiro e serviti con crosta di parmegiano.
Imboracciati (= impanati e fritti). Bianchiti i tordi in brodo, si taglieranno le ale e piedi, dopo s'infarinano, si dorano in uova ed involtati nel pane e parmegiano grattato, si fanno friggere per servirli con salvia fritta intorno.
Alla villana. Si cuociono in istufa i tordi con buon sugo di carne, un senso d'aglio, foglie d'alloro, salvia e timo; serviti con salsa di presciutto e scalogne trite.
Alla fiorentina. Cotti i tordi in brodo di manzo con aglio, e alloro, si servino con colì di fagioli bianchi, ove siano delli spinaci passati in butirro.
Per entremets. Si cuociono i tordi in vino con alloro, cannella e garofani intieri e dopo si servino freddi con salsa d'uva passa e malvasia».
Ma non possiamo certo dimenticare le preziose preparazioni offerteci da Francesco Leonardi nel suo L'Apicio moderno, una vera enciclopedia gastronomica, ordinatamente distribuita in sei tomi e preceduta da una introduzione in cui per la prima volta è tracciata una storia della cucina italiana, ricostruita dall'epoca della romanità fino ai tempi dell'Autore, attraverso i momenti della sua maggiore fortuna - durante l'età del Rinascimento - e attraverso la successiva involuzione fino al determinarsi dell'egemonia esercitata dalla gastronomia francese. L'autore, «già cuoco di Sua Maestà Caterina II imperatrice di tutte le Russie», mostra una notevole esperienza delle cucine straniere, non solamente di Russia, ma anche di Polonia, Turchia, Germania, Inghilterra e Francia, largamente documentabile nel suo ricettario e nell'ampio catalogo dei vini forestieri; ma nel medesimo tempo egli mette in evidenza il proprio interesse a registrare gli usi gastronomici delle varie regioni e città italiane, così da fornirci un ricco repertorio in materia.
Della cucina napoletana ricorda la «Zuppa di ogni sorte d'erbe alla napolitana», ma anche le rissole (= frittelle) e molti altri piatti a lui ben noti.
Solo con l'opera titolata La nuova cucina economica di Vincenzo Agnoletti si incomincia a prendere in considerazione la cucina più povera di tutte le regioni italiane e una versione della pizza alla napoletana che ricorda quella che tutti conosciamo: «Quando avrete formata una pasta come quella pasquale (= specie di pasta frolla), ma con una libbra di strutto ed una libbra di zucchero, vi mescolerete fettine di prosciutto, di formaggio cavallo (= caciocavallo), di ventresca e di provature (= formaggi freschi fatti con latte di bufala); indi formerete la pizza e la farete cuocere come le altre».
Mentre per la pizza rustica suggerisce: «Quando avrete messo il lievito con due libbre di farina, dopo dieci ore ve ne aggiungerete altre due libbre, quattro uova, quattr'once di zucchero, un poco di sale, dieci once di strutto, acqua tiepida a discrezione e fettine di provatura, di prosciutto o di ventresca. Indi fate la pizza e quando sarà lievitata fatela cuocere e servitela come il solito. Questa pasta la potrete fare anche senza nessun uovo».
Altra ricetta che compare in questa opera è quella delle «zeppole (= crostoli) di semolella (= pasta di semolino) alla napolitana», una sorta di frittelle fritte nello strutto e spolverate di zucchero.
Oggi la differenziazione fra cucina opulenta e cucina popolare è quasi inesistente essendo spariti molti piatti con l'evolversi del gusto ed essendosi raccorciate le distanze di gusto e possibilità economiche fra i vari strati della popolazione, anche se spesso non è difficile ricostruire la derivazione delle varie preparazioni.
La cucina napoletana, così solare, fantasiosa, spettacolare, non si è sottratta alla regola di entrare nella letteratura: scrittori come Matilde Serao, Giuseppe Marotta, Eduardo De Filippo, poeti come Salvatore Di Giacomo ne hanno immortalato piatti e invenzioni, protagonisti e carattere. Così, parlare della cucina napoletana (che riassume quella dell'intera regione) senza citare questi nomi illustri è quasi impossibile; cosa dire del «ragù» dopo che Marotta gli ha dedicato uno dei capitoli più memorabili dell'Oro di Napoli? Preparazione tradizionale, domenicale o comunque festiva, questa salsa che, insieme alla pizza, è all'apice della gastronomia partenopea, esige innanzitutto interminabile cottura. «Fin dalle primissime ore del mattino un tenero vapore si congeda dai tegami di terracotta in cui diventa bionda la cipolla ed esala le sue nobili essenze il rametto di basilico appena colto sul davanzale». Così inizia il poemetto in prosa che Don Peppino dedica all'impareggiabile salsa che condirà quello che è a Napoli il vero cuore di qualunque pasto: la pastasciutta. Perché il risultato sia quello che deve essere e non della comune carne col pomodoro, il ragù non deve mai essere abbandonato a se stesso in alcuna fase della cottura, perché «un ragù negletto cessa di essere un ragù e anzi perde ogni possibilità di diventarlo». Scelto con cura il pezzo di carne - né magro né grasso - che sta alla base della ricetta, lo si mette nel tegame sorvegliando dapprima la rosolatura e poi spalmando il primo strato di conserva. Ne seguono altri «a scientifici intervalli», entrano quindi in gioco il fuoco e il cucchiaio: lentissimo il primo, esperto il secondo, sensibile a capire il momento in cui intervenire. E finalmente ecco la zuppiera fumante pronta sulla tavola e il ragù, rosso e aromatico, che «pulsa nei maccheroni come il sangue nelle vene».
Alla base di esso, lo si è visto, c'è un ingrediente che merita un discorso a sé, il pomodoro. Vivido, vitaminico, disponibile a unirsi a mille altri sapori, viene spontaneo chiedersi come fu possibile farne a meno per tanti secoli. L'uso del pomodoro è infatti relativamente recente: giunse in Europa e quindi in Italia dal Perù o dal Messico dopo la scoperta dell'America e per due secoli fu ignorato dal punto di vista alimentare. Lo si trova citato per la prima volta nel 1743 in un canto di carnevale, ma solo tra la fine del secolo XVIII e l'inizio del XIX divenne comune a molte ricette e la coltivazione si diffuse fino a diventare una delle più importanti della Campania.
A Napoli - è stato detto - il pomodoro è "una mezza religione"; certo, la qualità è eccelsa e l'uso frequentissimo. A Napoli è sorta l'industria conserviera che ha portato in tutto il mondo i celebri "pelati" e il "concentrato" di pomodoro. Molti sono poi i metodi casalinghi di conservarlo, dai pomodori in bottiglia, fatti a pezzi oppure passati per essere sempre pronti alle utilizzazioni più varie, alla famosa "conserva" in cui il pomodoro viene stracotto fino a diventare una crema cupa e vellutata.
Pomodori freschi e sugosi si adagiano sulla pizza perché il loro sapore si unisca in stupendo accordo a quello della mozzarella e delle acciughe. La pizza, la creazione più celebre di tutta la cucina napoletana, è una invenzione molto più remota dell'epoca del pomodoro, anzi è tra le più antiche in assoluto. Un primo tipo di pizza si faceva in epoca romana, ed era una specie di focaccia di grano. Ma la pizza per antonomasia, cioè squillante di pomodoro, sfrigolante e allegra come nessun altro cibo, ha poco più di duecento anni. Diventò presto popolarissima presso il popolino, ma anche presso baroni e principi: dominava i ricevimenti dei Borboni, che ne erano ghiotti, e Ferdinando IV arrivò a farla cuocere nei forni di Capodimonte, gli stessi dai quali uscivano le preziose ceramiche artistiche.
Anche i sovrani piemontesi si lasciarono conquistare da questo umile cibo meridionale: fu per Margherita di Savoia che nel 1889 il pizzaiolo Raffaele Esposito creò la patriottica pizza "tricolore" in cui bianco, rosso e verde erano costituiti da mozzarella, pomodoro e basilico e che da allora si chiama appunto "pizza Margherita". Esistono numerose varietà di pizze: ai quattro formaggi, ai frutti di mare, alle olive, alla marinara, ma la presenza del pomodoro, almeno a Napoli, è pressoché fissa.
Oggi, pizza e pizzeria sono dovunque nomi magici: all'estero spesso sono le insegne di locali dove si cerca di ricostruire l'idea o l'illusione, pittoresca e oleografica, dell'Italia lontana.
Poiché la pizza piace a tutti, è economica, riempie lo stomaco e "risolve" insomma un sacco di occasioni, la si fa spesso anche in casa con facilità. È buona e allegra, certo, ma non sarà mai come quella del gran forno a legna, creata dal pizzaiolo che, con mano abilissima, appiattisce il disco di pasta, più sottile al centro che ai bordi, e con rapidi gesti vi sparge gli ingredienti già preparati e vi versa l'olio, poi con un gran colpo secco la mette sulla pala e la fa scivolare nel forno al calore giusto, rigirandola perché si cuocia tutta in modo uniforme finché, con un altro colpo, la riprende con la pala e finalmente la pone sul piatto del fortunato che, prima ancora di mangiarla, può gustarne con gli occhi tutta la calda, esuberante bellezza. Il napoletano, se è un vero esperto, la piega in quattro "a libretto" e se la mangia con le mani.
Altre glorie della cucina napoletana che è cucina metà di terra (pasta, verdure, latticini) e metà di mare (pesce, crostacei, molluschi), sono i piatti a base dei magnifici ortaggi dell'agro campano, come la parmigiana di melanzane o i peperoni ripieni. Sostanziosi, veri "piatti forti", sono numerosi e sempre ottimi. Fra le ricette di pesce, primeggiano i «polpi alla luciana», così detti dal popolare rione di Santa Lucia nel quale nacquero, cotti con peperoncino piccante e l'immancabile pomodoro. Fra la sontuosa mercanzia dell'ostricaro, personaggio tipico della strada e del "teatrino" napoletani, sono le "vongole veraci" a meritare la palma: carnose e profumate danno luogo a una squisita zuppa e condiscono "maccheroni" e "vermicelli".
La varietà delle paste alimentari napoletane è tale che giustificherebbe un capitolo a parte. La pasta non è stata inventata a Napoli, ma certo qui è stata portata ai massimi gradi di perfezione e qui, per la precisione a Gragnano, a soli pochi chilometri dal capoluogo, si è trovato il modo di essiccarla e conservarla, dando origine così alla produzione industriale dell'alimento più italiano che ci sia. Poiché la materia prima è il grano duro, molto difficile da impastare e lavorare, i napoletani si affidano con la massima fiducia alle loro paste industriali e non ritengono affatto - come in altre regioni - che la pasta per essere buona debba essere fatta in casa. In realtà la pasta a Napoli è straordinaria sia per la qualità sia per la perfezione della cottura, che deve essere giustamente "al dente", e del condimento. Dalla classica "pummarola" al semplicissimo "aglio e uoglio" fino a tutta la rassegna dei sughi con accompagnamento di verdure o di frutti di mare e all'apoteosi del ragù, la creatività meridionale dà qui una smagliante prova di sé.
Presenza importante della cucina napoletana e campana sono i latticini. Provoloni, scamorze, caciocavalli, ricotte compaiono spesso sulla tavola ed entrano nella preparazione di molti piatti, ma la regina dei formaggi è la "mozzarella", il fresco, dolce, tenero prodotto a pasta filata del latte di bufala. La produzione è concentrata soprattutto nella zona di Aversa, Battipaglia, Capua, Eboli, Sessa Aurunca: chiunque capiti da queste parti troverà qualcosa che resterà impresso nella sua memoria gustativa! Una varietà di mozzarella sono i "burrielli", bocconcini di tipo più dolce conservati in anfore di terracotta e immersi nel latte. Purtroppo la vera mozzarella di bufala è ormai rarissima, perciò si usa spesso latte vaccino: il risultato si chiama "fiordilatte", meno ricco nel sapore.
Esiste poi nella gastronomia napoletana una serie di piatti che risalgono alla tradizione di corte o a quella vera e propria "scuola", di ispirazione francese, che fu perseguita da un gruppo di famiglie nobili specialmente nell'Ottocento. Si crearono così ricette in cui si incontravano raffinate componenti francesi e ingredienti e usanze tipicamente napoletani. Ne vennero fuori invenzioni molto elaborate e spettacolari: i padroni di casa affidavano la regia e la confezione dei loro pranzi a cuochi esperti che divennero famosi. Tra le loro preparazioni la più celebre è il «sartù», un timballo a base di riso ripieno di fegatini di pollo, salsicce, polpettine di carne, mozzarella, piselli e condito con ragù, o, nella versione "in bianco" con besciamella. Un altro trionfale timballo è quello di maccheroni al ragù.
Certo queste creazioni elaborate e preziose rimasero lontane dalla semplice cucina del popolo, che continuò tuttavia a mietere successi nei vicoli e nelle trattoriole sul mare come nei ristoranti e negli alberghi di lusso. Il napoletano, scugnizzo o barone, ama gli stessi maccheroni con la "pummarola 'n coppa" o con le vongole, magari mangiati all'aperto, col sole che filtra da un pergolato e la vista del celeberrimo golfo negli occhi.
I più classici dolci di Napoli sono quelli che si mangiavano una volta: gelati, «babà», spumoni, «sfogliatelle», «taralli» e la magnifica «pastiera», il dolce del tempo che va dall'Epifania a Pasqua, con la ricotta fresca e i fiori d'arancio, la cannella e i canditi.
La cucina a Napoli è fatta soprattutto di "esterni", di spettacolo, è esperienza da condividere con qualcuno che faccia la parte del pubblico. Dai "friggi e mangia", i molti prodotti della rosticceria locale, ai vari "passatempi" che vengono offerti nei chioschi o sulle bancarelle e che si consumano in qualunque momento della giornata (sono frutti di mare, pizzette, tartine, frittelle). Napoli mostra come sempre a chi vuol vederla la sua millenaria, leggendaria fantasia.
Cos’è la pizza?
La domanda può sembrare superflua ma a pensarci bene non lo è affatto, visto il numero di parenti più o meno stretti che la pizza conta: paste di pane appiattite, lievitate, cotte nel forno o fritte, focacce variamente insaporite e condite presenti nelle tradizioni regionali italiane e nella gastronomie di vari paesi del mondo, dall’India alla Russia. Una definizione che permette di distinguere la pizza da quel che alla pizza solo assomiglia può essere questa: “Pizza: strato sottile d’impasto ottenuto mescolando intimamente farina di grano, acqua, sale, lievito e (se si vuole) olio d’oliva; su questo strato, in genere a forma di disco col bordo più spesso, si dispongono gli ingredienti prima della cottura in forno. Gli ingredienti scelti caratterizzano sapore, aroma, colore, consistenza dei diversi tipi di pizza a cui danno anche nome*”. Oltre che alimento tecnicamente definibile la pizza è frutto di una storia secolare, qua e là nebulosa, con pochi documenti, alcune supposizioni e molti dubbi: come spesso accade alla storia “minore” della cultura materiale, della vita quotidiana, dei cibi. Quel che è certo è che così come la vediamo e la gustiamo – quasi sempre col pomodoro – la pizza è nata a Napoli nel Settecento: come cibo del popolo da mangiare piegata in quattro sfamandosi per strada, ma subito così gustosa da attirare l’apprezzamento dei re.
* Questa definizione segue, tranne che per l’indicazione di facoltatività dell’olio nell’impasto, quella autorevolmente proposta da Rosario Buonassisi, studioso (fra l’altro) di enogastronomia e storia dell’alimentazione.
In principio fu il fuoco
A rigore, cercando il bandolo della matassa per dipanare la storia della pizza, si retrocede dal pane all’agricoltura e si finisce di fronte a una delle “scene madri” della storia dell’uomo: la “scoperta” del fuoco. È una scena immaginata e insieme l’archetipo di migliaia di scene effettivamente svoltesi in migliaia di luoghi e tempi diversi, intorno a un milione e mezzo di anni fa: un bosco s’incendia e uomini affascinati e atterriti trascinano verso il campo un tronco che brucia, attizzano braci residue, osservano quello che accade. Lo voglia o no l’uomo, il fuoco esiste: obbedendo a una natura che già diventa cultura i nostri remoti predecessori lo ammansiscono, lo addomesticano, infine lo usano provocandolo per servirsene. Per illuminare grotte e accampamenti, per riscaldare, per difendersi, per produrre strumenti, per cuocere: cotti, gli alimenti diventano più digeribili, più conservabili, più buoni. Nel linguaggio dell’archeologia e della paleontologia questo significa placche di argilla bruciata ritrovate in giacimenti comprendenti anche resti litici e ossa: tracce dei primi focolari in Africa o in Cina, molte migliaia di anni fa. Nel linguaggio tenero e poetico del mito è Prometeo che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini che soffrono per guadagnarsi la vita.
Il primo pane
Il passo successivo è in realtà gigantesco nella scala dei tempi e della cultura. Anche questo lo si può immaginare con voluta ingenuità come una successione di quadri, vignette di una sorta di storia del mondo a fumetti dal punto di vista della pizza. Mesopotamia, “mezzaluna fertile” (dove oggi è l’Iraq), circa VIII millennio a.C., al tempo del neolitico o età della pietra levigata: l’uomo comincia a coltivare, seminare e lavorare la terra. Ha imparato che i semi dei cereali, che già conosce in forma selvatica – orzo, avena, farro, miglio –, nuovamente interrati producono dopo un certo tempo altre piante. Per impadronirsi dei meccanismi e del calendario dell’agricoltura, dal dissodamento del suolo allo sfruttamento dei terreni senza esaurirli, alla selezione delle specie vegetali, occorrerà tempo (millenni): lo stesso che vedrà popoli sedentarizzarsi, sorgere villaggi e città, definirsi pian piano quelle forme sociali complesse che chiamiamo “prime civiltà”. Ma intanto, sfregando tra due pietre i chicchi arrostititi di farro per liberarli dal glume (la pellicola non commestibile che li riveste), ci si accorge che ne viene una polvere grossolana, una farina che può essere mescolata con acqua per farne una pappa. Già si producono ceramiche, recipienti capaci di non sciogliersi all’acqua e di resistere al fuoco: è abbastanza naturale che si provi a cuocere quell’impasto di acqua (o latte) e farina su una pietra rovente. La focaccia molto bassa, non lievitata che ne risulta è il primo pane: o forse, se si sta alla forma, la prima pizza (non lievitata e senza condimento).
Azzimo o lievitato?
Il pane nasce dunque azzimo, come quello che oggi chiamiamo arabo, simile alla “carta da musica” dei pastori del Nuorese, alle piadine e alle tigelle romagnole o al chapati indiano. Con il raffinamento della farina, grazie a più accurati sistemi di macinazione, l’impasto migliora e l’aggiunta di olio o di grasso lo rende lavorabile più facilmente in forme diverse. Si può immaginare anche la rapida evoluzione dei “forni”, strumento per eccellenza di panificatori e pizzaioli ante litteram: il primo, rudimentale, nasce quando la pietra arroventata che funge da “piano di cottura” è coperta da un vaso di terracotta a cilindro o a campana; poi si passa a costruire una buca di pietre arroventate in cui porre l’impasto; infine si arriva al forno a due piani, uno per il focolare e l’altro per la cottura. Di pane preparato per speciali occasioni religiose e sacrificali, unto in superficie con olio d’oliva o grasso fuso, parlano anche la Bibbia e le Tavole Eugubine, documento della cultura italica antica. La parentela di questi sottili pani azzimi – di alcuni almeno, possiamo supporre – con la pizza moderna si accentua se si pensa che potessero essere consumati, oltre che da soli o in accompagnamento ad altri cibi, come “base” di vivande cotte a parte e complete d’intingolo, interpretabili come loro condimento. Questa funzione di basi o “piatti” commestibili ha un’eco nella parola latina mensae (da cui mensa), indicante le fette di pane della grandezza di un boccone su cui i commensali posavano i cibi. Ma intanto, ben prima di arrivare a Roma, interviene la rivoluzione legata al controllo del processo di lievitazione naturale dell’impasto. Il passo si compie intorno al II millennio a. C. in Egitto, come la Mesopotamia terra di orzo, di farro e di birra (che qui si chiama zythum), ed è proprio lo sforzo di migliorare il metodo di produzione della birra a dare l’impulso. È probabile però che la prima scoperta sia stata casuale: basta che un impasto di acqua e farina sia dimenticato per qualche tempo in un luogo caldo e buio perché i lieviti naturali presenti nell’aria inducano una fermentazione. La pasta lievitata, gonfia e dallo strano sapore acidulo, avrà suscitato all’inizio sospetti e cautele: cotta, si trasforma in un pane più soffice, appetitoso e leggero, che i popoli stanziali mostreranno presto di preferire.
Antenati classici
In Egitto pane, focacce, schiacciate e simili occupavano un ruolo essenziale nell’alimentazione quotidiana, come dimostrano le “liste di offerte” che i defunti portavano con sé per le necessità dell’oltretomba, dipinte o scolpite nelle pareti delle camere funerarie: esistevano 15 nomi diversi per designare i diversi tipi di impasti di pane e un catalogo del Nuovo Regno enumera almeno 40 varietà di pani e di dolci. Si sa che per il genetliaco del faraone si mangiava una schiacciata aromatizzata con erbe speciali e che, mentre la birra era ancora prodotta in casa, il lavoro del fornaio era svolto come professione distinta. Nella Grecia classica si ha notizia addirittura di una settantina di tipi di pani diverso, con nomi distinti per forme, tipo di cereale usato, altri ingredienti, tipo di cottura: differenziazione legata in parte a usi specifici nei riti riservati agli dei. Maza è l’antico nome greco per focaccia. A Roma l’arte della panificazione arriva (come molte altre cose) per il tramite dell’Ellade conquistata. Verso il 200 a.C. i mugnai sono già diventati fornai, ovvero panificatori pubblici o pistores (parola di cui resta il ricordo in alcune espressioni dialettali), riuniti in associazione di mestiere. Placenta e offa sono i termini generici con cui si indicano le focacce, preparate per lo più con acqua e orzo. Dei molti tipi di pane prodotti nell’Urbe almeno tre mostrano un’innegabile, anche se non del tutto precisabile parentela con la pizza: uno è descritto come adipatus, cioè condito con lardo (non si sa se nell’impasto prima dell’infornata o dopo, in forma di fettine disposte in superficie); del secondo, lo strepticius, si sa che era una sfoglia impastata da farina, latte, olio di oliva e pepe e cotta su una pietra arroventata; ma è soprattutto il nome del terzo, l’artolaganum, a indurre stimolanti supposizioni. Sembra infatti derivare dalle parole greche artos, pane lievitato (anche non di frumento) e laganon, impasto di acqua e farina steso in una sfoglia sottile. Si parla di supposizioni perché nessuno di questi tipi di pani o “protopizze”, destinati presumibilmente al consumo del popolo, è descritto in dettaglio dagli autori antichi che nei loro scritti si occupano anche di alimentazione. Pochi dubbi però che qualcosa di assai simile alla pizza sia consegnato alla posterità dalle culture classiche affacciate sul Mediterraneo.
Il medioevo o l’apporto delle risorse locali
Non sempre le cose importanti si svolgono alla luce del sole, com’è noto: non è dunque strano – giocando un po’ con le parole – che quelli che un tempo si definivano i “secoli bui” del medioevo abbiano svolto un ruolo sotterraneo e creativo anche nel caso della pizza. Sotterraneo perché di pizza, esplicitamente, si continua a non parlare; creativo perché in un periodo di disgregazione o collasso di strutture pubbliche e di incerti rifornimenti è lecito pensare che pani, focacce e schiacciate della tradizione siano stati via via arricchiti per apporto dell’iniziativa e dell’inventiva personale, sulla solida base delle risorse locali. Ecco così che formaggio, acciughe, sardine, cipolle, semi ed erbe aromatiche varie, funghi si sposano all’impasto, insieme al quale, spesso, vengono cotti. Per lo spessore si tratta ancora di focacce, o torte rustiche, ma l’aderenza al concetto di pizza è sempre più evidente. Dai longobardi, calati in Italia e saldamente stabiliti nel Sud viene intanto la bufala, che si acclimata presto tra Lazio e Campania: premessa della mozzarella. Si noti che di questi cibi “plebei”, poveri per ingredienti ma ricchi per gusto e spesso geniali per accostamenti gastronomici non si parla o quasi nelle fonti scritte: né nei secoli del medioevo, né nei manuali che insigni gastronomi vergano per la delizia delle corti rinascimentali, né nei più domestici, successivi ricettari scritti a uso di “privati”. Ben oltre i secoli di mezzo si situano comunque due altri sviluppi strategici per l’evoluzione della pizza. Nel Settecento, dopo quasi quattromila anni in cui le tecniche di panificazione sono rimaste sostanzialmente invariate, mulini a cilindri d’acciaio sostituiscono i vecchi mulini a palmenti: ne risultano farine più raffinate, bianchissime, composte quasi solo della parte centrale amidacea (mandorla) del chicco. Sono farine dieteticamente impoverite, ma vincenti. Il secondo evento, che si situa alla fine del Settecento o anche dopo, è l’incontro col pomodoro.
Per il popolo e per il Re
Il pomodoro viene dall’America, la pizza ci andrà. Ma è a Napoli che tutto si svolge. Nella capitale miserabile e splendida del Regno ancora spagnolo, la pizza è di casa già dal Seicento. È ancora senza pomodoro, “bianca”, condita solo con aglio, strutto e sale grosso nella versione più economica, o con caciocavallo e basilico nella più ricca “mastunicola”; ne esistono anche, il che non stupisce, prime versioni “alla marinara”. È però nel corso del Settecento, quando il pomodoro entra trionfalmente nella cucina campana (e in parte italiana), che nella città ormai dei Borbone la pizza si afferma in una forma sempre più vicina a quella che conosciamo fino a diventare, in breve, uno dei piatti preferiti dal popolo. E non solo: sembra che Ferdinando I di Borbone, amante dei cibi semplici, assaggiasse le pizze della bottega di Antonio Testa detto n’Tuono e se ne appassionasse talmente da tentare, invano (per l’opposizione della consorte Maria Carolina d’Austria), di farle inserire nell’elenco delle vivande ufficiali di corte. Segno di una predilezione anche aristocratica e insieme del perdurante snobismo per cui la pizza, che pure conquista con straordinaria rapidità tavole e palati, non è ancora ritenuta degna di figurare nei trattati di gastronomi e chef. Insieme alla pizza si definiscono i modi e i luoghi per mangiarla, il che riporta alle autentiche radici popolari e “sociali” di questo cibo destinato a fortune mondiali. Nel Settecento a Napoli la pizza si mangia soprattutto per strada ed è preparata da umili venditori per una clientela altrettanto o più umile, con pochi orari e pochi luoghi di lavoro fisso. La pizza, in questo, ha vantaggi insuperabili: è nutriente e appetitosa, costa poco per chi la vende e per chi la compra (niente olio d’oliva da cambiare almeno ogni tanto come per le fritture, niente piatti da possedere e lavare), è pratica: basta piegarla in quattro, “a libretto”, ed ecco un pasto buono e comodo, che riamane gradevolmente caldo senza scottare. Solidi motivi per battere la concorrenza degli spaghetti che una certa (stucchevole) tradizione oleografica ci mostra tenuti ben alti nella mano, ricadenti verso la bocca dello scugnizzo affamato. La concorrenza è poi sbaragliata quando la pizza comincia a essere condita con sughi simili a quelli della pasta, a base di pomodoro ma più densi, con un po’ di mozzarella al posto del formaggio grattugiato: diventa allora, ormai definitivamente “rossa”, altrettanto varia, saporosa, profumata di maccheroni e vermicelli.
Pizze e pizzerie
Nel Settecento la pizza viene dunque cucinata nei forni a legna delle botteghe (che spesso fungono anche da abitazione) e venduta poi in banchi all’aperto o lungo le strade e i vicoli della città: un garzone porta in equilibrio sulla testa la “stufa” in cui stanno in caldo le pizze, diverse per condimenti e ingredienti, e le consegna direttamente ai clienti “a domicilio”, in casa o per strada, preannunciandosi con chiassosi, inequivocabili richiami. Ma a cavallo con l’Ottocento le abitudini prendono a cambiare: comincia ad affermarsi l’usanza di mangiare la pizza presso i forni in cui è preparata, oltre che a casa o per strada. È un segno del favore crescente della vivanda, entrata ormai a pieno titolo nelle abitudini alimentari dei napoletani, ma è anche la nascita della pizzeria nella forma che conosciamo, coi suoi inconfondibili caratteri fisici e “ambientali”: il forno a legna, il bancone di marmo dove viene preparata la pizza con gli ingredienti per la farcitura in bella mostra su uno scaffale, i tavoli dove i clienti la gustano, l’esposizione esterna di pizze vendute ai passanti: tutti elementi che si ritrovano nelle pizzerie napoletane di oggi. Nel 1780 viene fondata la pizzeria “Pietro e basta così” la cui tradizione, a due secoli di distanza, è continuata dall’Antica Pizzeria Brandi: può essere considerata la prima, in senso moderno (anche se per altri bisogna aspettare per questo il 1830 e la nascita della pizzeria Port’Alba). Nel 1889, verso la fine di un secolo in cui i pizzaioli hanno rifornito il popolo di pizza di qualità ormai svariate, arriva una seconda e più importante approvazione reale. Adesso c’è l’Italia ed è il tempo dei Savoia. A sua maestà Umberto I e alla consorte regina Margherita, che in visita a Napoli hanno espresso il desiderio di assaggiare la pizza, il pizzaiolo Raffaele Esposito della pizzeria “Pietro e basta così” ne offre tre: la “mastunicola” (sopravvissuta pizza “bianca”), la pizza alla marinara (pomodoro, aglio, acciughe, olio d’oliva), la pizza pomodoro e mozzarella (pomodoro, aglio mozzarella, basilico, olio d’oliva). La regina in particolare le apprezza talmente, soprattutto la pizza alla mozzarella, da voler ringraziare ed elogiare per scritto l’artefice: documento, a firma “devotissimo Galli Camillo, capo dei servizi di tavola della real casa”, che ancora religiosamente si conserva presso l’Antica Pizzeria Brandi. Come unica forma di ringraziamento possibile Esposito dedica la pizza alla mozzarella alla regina, ribattezzandola Margherita. Da allora, per tutti, si chiama così. |